marcinelle
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di: Silvano Guglielmi, 23 gennaio 2004 * "Scuola-Cultura"
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        In margine alla fiction, trasmessa 
        dalla Rai il 23 e 24 novembre,  si possono dire tante cose. Piace, non 
        piace; le storielle di amori e corna hanno avuto il sopravvento sulla 
        reale situazione dei nostri minatori; la ricostruzione è fedele o meno; 
        è solo accennata l’importanza e la vivace  presenza di partiti, 
        sindacati ed altre associazioni. Ho letto giudizi positivi. Ho sentito 
        riserve da chi in quei giorni viveva a fianco dei nostri minatori. E c’è don Vito in bicicletta, che spia i tradimenti, che arringa con buon senso i rivoltosi e si mostra vicino alla sua gente, specialmente nel momento della tragedia. Così, per la piccola storia delle nostre missioni in Belgio, concedetemi una precisazione: non c’era nessun don Vito in quel momento a Marcinelle, che dipendeva dalla missione di Marchienne au Pont, dove lavoravano tre missionari scalabriniani: P. Giacomo Sartori, P. Angelo Toniolo, P. Silvio Moro, tutti i tre già tornati alla casa del Padre. 
 
        In un articolo dell’ottobre 1956, P. 
        Sartori scriveva: 
        
         
        “Ho davanti agli occhi la visione 
        dei cadaveri che quella notte sono stati rimontati da quota 1.035. In un 
        attendamento di fortuna, piantato a pochi metri dall’imboccatura del 
        pozzo, sotto la luce azzurra dei riflettori, entravano in silenzio due 
        ombre, sorreggendo un sacco di plastica: lo stendevano sul tavolato, 
        gridando un numero: era quello che la nuova vittima avrebbe avuto 
        inchiodato sulla bara, seguendo la successione dei corpi ritrovati e 
        fatti risalire. 
        A questo punto le suore di carità 
        aprivano il sacco e appariva il cadavere, ancora vestito dell’uniforme 
        da minatore, spesso con la lampada stretta in pugno o deposta ai piedi… 
        La combustione della miniera, che 
        dura da un mese e spinge ancora il fumo fuori dai comignoli della 
        superficie, ha avuto tutto il tempo per cuocere quei poveri corpi, 
        gonfiandoli all’inverosimile e riducendo il viso ad una maschera nera, 
        uguale per tutti, irriconoscibile. 
        Eppure quei cadaveri non recano 
        traccia di sofferenza alcuna: il fuoco non è arrivato a lambirli, le 
        frane non li hanno sfiorati: l’ossido di carbonio, volando fulmineo da 
        una taglia all’altra, li ha fatti passare da un sonno improvviso alla 
        morte”. 
        
         
        In una raccolta antologica degli 
        scritti di P. Sartori, che uscivano sul  Sole d’Italia, L’Eco d’Italia e 
        La Missione, trovo quest’altro pezzo di un anno dopo. 
        
         
        “Pioveva a dirotto quando giunsi ai 
        cancelli del cimitero di Martinelle, nel pomeriggio del primo novembre. 
        Sostai a lungo davanti alle tombe dei minatori, vittime della catastrofe 
        dell’8 agosto 1956; vi si leggevano parecchie iscrizioni in tedesco. I 
        nostri connazionali Izzi e Dassogno vi stanno pure sepolti, mentre gli 
        altri sono andati a raggiungere i loro cari nei cimiteri della 
        madrepatria. 
        Sotto la coltre d’una pietra grigia, 
        che reca l’iscrizione “inconnu”, dormono le spoglie dei minatori che non 
        è stato possibile identificare. Sono dominate dal monumento eretto alla 
        memoria di tutte le vittime di Martinelle. Il monumento ha un’innegabile 
        potenza artistica ed una nitidezza di stile… E’ però difficile 
        immaginare che la commissione ce l’ha scelto si sia resa conto della 
        terrificante realtà ch’esso esprime. Il volto sfigurato dalla fatica, il 
        dorso della mano che, mentre asciuga il sudore della fronte, fa un gesto 
        di ribellione, la bocca aperta allo spasimo della muscolatura contratta, 
        dicono tutta la rivolta dell’uomo contro la miniera. “Sta lì, maledetta 
        fossa!”,sembra gridare l’uomo dal piedestallo di pietra… 
        La folla intanto passava e ripassava 
        davanti alle tombe; mazzi di fiori e ghirlande si posavano sulle pietre 
        sepolcrali; la pioggia intanto continuava a cadere, come un pianto 
        sommesso”. 
        
         
        Le tante cose che vedo, leggo e 
        sento sull’emigrazione, specialmente in questi ultimi tempi, mi hanno 
        portato a un convincimento, che 
        qualcuno può giudicare come fissazione o eccessiva semplificazione: 
        tutto serve “per non dimenticare”. O dovrebbe servire. Come le pagine 
        riportate sopra o come la fiction televisiva. Invece vedo in giro una 
        gran voglia di rimozione. 
        
         Silvano Guglielmi  |