PERCHE' GLI USA VOGLIONO
AD OGNI COSTO ATTACCARE L'IRAN?
Inviato da Minaccia * marzo 2006 * (articoli)* Caratteri grandi-medi-normali * Accessibilità
Perché gli
USA vogliono ad ogni costo attaccare l’Iran?
di Carlo Bertani -
9/02/2006
Era
come se avessi
vissuto molto a lungo e, cammina cammina, fossi arrivato a un abisso e
avessi visto chiaramente che davanti a me non c'era nulla, se non la
rovina: e fermarsi non si può, e tornare indietro non si
può e neppure si può chiudere gli occhi per non
vedere che davanti non c'è nulla se non l'inganno…
Lev Tolstoj Le
confessioni
Nel
1941 il Giappone
attaccò gli USA a Pearl Harbour perché, se si
fosse piegato alle richieste di Washington – che aveva
espressamente fissato i quantitativi massimi di materie prime che il
Sol Levante poteva importare – l’economia
giapponese avrebbe subito un terribile tracollo ed il paese sarebbe
precipitato nella miseria.
I giapponesi erano consci
d’avere scarse probabilità di successo, sapevano
che gli USA potevano in un solo anno produrre più portaerei
di quelle che il Giappone sarebbe riuscito a produrre in un secolo, ma
tentarono ugualmente. Perché? Poiché non avevano
altra via d’uscita.
La stessa domanda – curiosa nemesi storica – se la
sono certamente posta a Washington prima di dare inizio alle danze,
ovvero prima di premere affinché Teheran fosse deferita al
Consiglio di Sicurezza dell’ONU, primo passo verso un nuovo
abisso di morte e distruzione: il futuro immaginato dagli USA
è quello di riportare l’Iran all’anno
zero dello sviluppo industriale.
Tutti
possiamo capire
facilmente che si tratta di un futuro a tinte assai fosche, e per mille
motivi: se gli USA sono già in grave difficoltà
in Iraq ed in Afghanistan, perché rilanciare il piatto con
un’altra puntata di sangue?
Apparentemente, la cosa ha poco senso, ma solo apparentemente.
Le ragioni ufficiali? La questione nucleare: una bugia che non ha
nemmeno le gambe per muoversi, altro che le armi di Saddam Hussein.
Anzitutto, nessun trattato od accordo internazionale impedisce ad un
paese di dotarsi di tecnologia nucleare ad uso civile, e ci sarebbe
anche da discutere sul fatto che non possa dotarsi d’armi
nucleari, giacché coloro che sembrerebbero essere i giudici
della contesa sono proprio i paesi ricchi di missili e relativi ordigni
atomici.
Sorvoliamo su queste quisquilie diplomatiche, giacché
sappiamo che nella storia esiste una sola legge – quella del
più forte – e domandiamoci: davvero
l’Iran sarebbe un pericolo per l’area?
A
dire il vero,
l’Iran parrebbe l’unico paese di un certo
“peso” nell’area ad essere privo
d’armi nucleari: se Teheran è un pericolo, il
Pakistan che cos’è?
E non finisce qui, giacché l’Arabia Saudita ha
recentemente ristrutturato con acquisti in Cina il proprio arsenale
balistico: ufficialmente non ha l’atomica, ma armamenti
chimici e biologici non mancano certo a Ryad. Non minimizziamo sugli
armamenti biologici: per una popolazione colpita, è forse
preferibile morire di botto in uno schianto atomico piuttosto della
lenta e terribile morte che danno l’antrace modificato od il
nuovo vaiolo made in provetta.
Pakistan, India, Cina ed Israele hanno arsenali propri, mentre
l’Iraq e l’Afghanistan sono sotto controllo
americano (e quindi sotto il loro “ombrello”
atomico): chi è rimasto fuori?
La Siria si è dotata recentemente dei missili SS-26 Iskander
russi, in grado di volare bassi, velocissimi e praticamente invisibili
ai radar; l’obiettivo di quei missili (con testata
convenzionale, ad esplosivo) è uno solo: in caso di guerra
contro Israele, colpire la centrale nucleare israeliana di Dimona.
Insomma, tutti in Medio Oriente sono in grado di combinare sfracelli
con quello che già possiedono: se l’Iran fra
qualche anno avesse la bomba atomica, è oggi il caso di far
saltare l’intero pentolone medio-orientale con quella
motivazione? Sarebbe come dar fuoco alla casa per prevenire un
possibile incendio.
Le
vere motivazioni
bisogna andarle a cercare da altre parti, ma non
c’è tanto da “grattare” per
scoprire l’uovo di Colombo.
La prima causa è comune a tutti gli stati che possiedono
giacimenti petroliferi: nessun paese che gode di simili ricchezze
può permettersi di trasformarle in tessuto produttivo, in un
apparato industriale, giacché maggiore è
l’indipendenza economica e tecnologica dalle grandi potenze e
minore è il controllo imperiale e neocoloniale che le stesse
possono esercitare.
Ci sono due esempi – antitetici – che dimostrano
ampiamente questa tesi: il primo è l’Iraq, che
– pur essendo al secondo posto nel pianeta per riserve di
petrolio censite – estraeva a ritmi molto blandi e
trasformava i proventi in tessuto industriale e nella modernizzazione
del paese.
Contrariamente a quello che oggi tutti pensano, il giudizio che alcuni
storici (fra i quali Paolo Mieli) danno di Saddam Hussein non
è completamente negativo: il rais di Baghdad
iniziò a commettere clamorosi errori dopo il 1980, quando
s’impelagò nella terribile guerra contro
l’Iran, ma prima aveva giocato bene le sue carte.
L’Iraq non è un paese molto popoloso ed ha due
grandi fiumi che lo attraversano, il Tigri e l’Eufrate:
ciò rende possibile l’irrigazione e quindi
l’indipendenza alimentare. I proventi petroliferi, se ben
investiti per creare un apparato produttivo, avrebbero consentito
all’Iraq di diventare una sorta di
“Germania” dell’area, ovvero un paese
ricco di tecnologia.
Grande
attenzione
veniva posta all’istruzione, e molti iracheni frequentarono
le università europee: da ultimo, non dimentichiamo che, se
qualcuno cercava un paese islamico dove la donna aveva uguali diritti e
tutte le possibili carriere aperte, quello era proprio l’Iraq
di Saddam Hussein. Sfidiamo chiunque a provare il contrario.
Una miriade di fattori non resero possibile il passo, primi fra tutti
proprio la megalomania di Saddam Hussein ed il conseguente regime di
terrore interno, ma né gli USA né Israele
avrebbero mai permesso che Baghdad diventasse un paese tecnologicamente
avanzato. Non dimentichiamo che il bombardamento effettuato nel 1981
sulla centrale nucleare irachena in costruzione fu – per il
diritto internazionale – un puro e semplice atto di
terrorismo, giacché non esisteva uno stato di guerra fra i
due paesi (a meno di risalire alla guerra del 1948, tesi assai labile).
All’opposto, l’Arabia Saudita è il
lampante esempio del contrasto: il primo produttore di greggio al mondo
– che subdolamente sostiene Al-Qaeda – viene
considerato “alleato” giacché i proventi
petroliferi sono investiti nella finanza internazionale, pura e
semplice carta “garantita” dalle Banche Centrali.
Se – invece di pura e semplice carta – qualcuno
inizia a costruire industrie, quelle non sono più carta
ma beni,
ovvero qualcosa che ha un valore d’uso – e non di
pura imputazione – e quindi non soggetto al controllo
imperiale.
E
l’Iran? Il
paese si trova oggi in mezzo al guado: ha siglato recentemente un
contratto con la Cina per la fornitura a
prezzi di mercato di gran parte
della propria produzione (petrolio e gas) per i prossimi 25 anni. Bush
non ha certo festeggiato l’evento con un party nel prato
della Casa Bianca.
D’altro canto, per l’Iran questa non è
certo una novità: già nel 1953, gli USA
riuscirono ad impedire che i proventi petroliferi servissero per
migliorare le condizioni di vita degli iraniani e riuscirono a
“togliersi dai piedi” l’ingombrante
Mossadeq, che aveva nazionalizzato le compagnie inglesi.
L’Iran,
a differenza dell’Iraq e
dell’Arabia Saudita, è molto popoloso ed ha una
popolazione in forte crescita: inoltre, ha sì importanti
ricchezze petrolifere, ma non abbondanti come quelle dei due vicini.
Se Teheran usa il petrolio ed il gas nazionale per supportare
l’apparato produttivo interno, si priva di gran parte dei
proventi petroliferi; la ragione della “corsa” al
nucleare è tutta qui: incassare valuta pregiata con il
petrolio ed il gas e produrre energia ad uso interno con le centrali
nucleari.
E
gli aspetti
militari? Chiunque possieda centrali nucleari è in grado di
produrre – se si dota della necessaria tecnologia –
ordigni atomici, questo è innegabile, ma impedire ad un
paese di produrre energia elettrica dal nucleare per scopi pacifici
è come proibire la vendita dei coltelli da tavola,
giacché con un attrezzo del genere chiunque può
sgozzare il proprio vicino.
Come ricordavamo, i trattati internazionali riconoscono chiaramente il
diritto per qualsiasi paese di dotarsi di tecnologia nucleare: possiamo
avere riserve di tipo ecologico al riguardo, ma questo è un
altro paio di maniche.
Per risolvere la questione, la Russia ha offerto d’arricchire
l’Uranio nelle proprie centrali e quindi di fornirlo
all’Iran per produrre elettricità in patria: gli
iraniani non hanno rigettato la proposta, ma hanno chiarito che
l’accordo andrebbe approfondito. I timori, per Teheran, sono
evidenti: se il combustibile nucleare per il funzionamento
dell’apparato industriale proviene dall’estero,
è come consegnare le chiavi della propria autovettura al
proprietario di una stazione di rifornimento, che elargirà
la benzina secondo le proprie convenienze.
In
ogni modo, Teheran
non ha escluso quella via: ha semplicemente chiesto altro tempo per
approfondire i termini del possibile accordo. Qual è allora
la ragione della fretta americana, il prurito che non può
essere placato senza la pioggia di bombe?
La fretta ha nome e cognome, e si chiama Borsa Energetica.
Da quando esiste il mercato del petrolio, il suo prezzo è
fissato in dollari: quanto vale il mercato mondiale
dell’energia (in dollari)? Con il prezzo del petrolio intorno
ai 60$ il barile siamo intorno ai 3.500 miliardi di dollari, miliardo
più miliardo meno, proprio una bella cifretta, nella quale
è compresa tutta l’energia consumata nel pianeta,
proveniente da varie fonti (petrolio, carbone, gas, ecc.)
Il mercato mondiale dell’energia vale quindi tre volte il PIL
italiano, oppure un terzo di quello americano: sempre valutati in
dollari. Già, ma quanto vale un dollaro?
L’attuale,
alto prezzo del greggio racconta non una, bensì due vicende:
l’esaurimento delle risorse ma anche il deprezzamento del
dollaro, “scaduto” in cinque anni rispetto
all’euro di un buon 35%. Il prezzo del greggio viene da
sempre misurato in dollari perché è stata sempre
assegnata alla divisa statunitense una sostanziale solidità:
poteva sì fluttuare come le altre monete, ma Washington
rimaneva sempre la miglior garanzia di non ritrovarsi con le casse
dello stato piene di carta straccia.
L’idea balzana scaturita dal turbante degli ayatollah
è quella di creare una Borsa Energetica dove si possa
pagare in dollari, oppure in altre valute. Va da sé che
nessuna moneta può competere con il dollaro, e nessuno
pretenderebbe di pagare con dinari jugoslavi o con pesos argentini, ma
in euro sì.
Perché questa fuga nell’iperspazio economico,
proprio da parte degli ultra-tradizionalisti ayatollah?
A dire il vero non si tratta proprio di una novità: Saddam
Hussein – sottoposto ad embargo – vendeva il
petrolio che riusciva a contrabbandare mediante l’oleodotto
siriano e con il trasporto mediante autobotti in Turchia in euro,
niente dollari. Un azzardo? Una vendetta? Niente affatto: nelle casse
irachene entravano euro che nel tempo si apprezzavano, e non dollari
che perdevano valore.
La
Cina –
silenziosamente – sta cercando di vendere l’enorme
quantità di dollari in suo possesso (pari al 30% del debito
interno americano) per far posto ad altre valute, principalmente euro.
Il guaio è che deve farlo lentamente e con molta accortezza,
altrimenti il valore del dollaro precipiterebbe e finirebbe per
svalutare proprio le sue riserve in valuta estera.
Insomma, il povero dollaro pare avere la rogna addosso, tanto che la
nuova Federal Reserve del dopo-Greenspan non comunicherà
più le quantità di dollari immessi, ovvero quanta
carta verde stamperanno. E’ proprio il caso di parlare di
“carta verde”, perché la divisa
americana corre il rischio – un po’ per
l’aggressività delle economie asiatiche, ed un
po’ per la scarsa avvedutezza di un Presidente cow-boy
– di fare la fine del classico vaso di coccio.
I vantaggi di un “petrol-euro”, per i paesi
produttori, sarebbero quelli d’incassare una valuta
più stabile (giacché garantita da accordi di
bilancio fra i paesi contraenti, il trattato di Maastricht), mentre per
gli acquirenti la maggior stabilità della valuta di
riferimento sarebbe garanzia di minori oscillazioni del prezzo:
insomma, l’euro prenderebbe il posto del dollaro nel mercato
dell’energia.
Se il greggio iraniano (e d’altri paesi) fosse
commercializzato in euro, sarebbe un’ulteriore batosta per la
Federal Reserve del fuggitivo Greenspan, ed il biglietto verde
accentuerebbe la ripida china che lo sta conducendo al disastro.
Ecco
la pruderie
che conduce a tenere schiacciato l’indice sul grilletto, ecco
la vera ragione per scaldare i motori di portaerei e cacciabombardieri!
Verso quale scenario conduce una simile follia?
Non ci sarà nessuna occupazione militare
dell’Iran, questo è certo, giacché gli
effettivi dell’esercito USA non bastano nemmeno per
l’Iraq e per l’Afghanistan. Dopo le prime settimane
della guerra irachena, però, i piloti sono praticamente
disoccupati ed ingannano il tempo allenandosi con i simulatori e
toccando il sedere alle cameriere.
Perché tanto spreco di risorse! Avrà esclamato
Rumsfeld.
In effetti, i piani americani prevedono una campagna aerea che
potrà durare dalle due alle otto settimane, secondo i
risultati dell’offensiva. Il copione sarà il
solito: dapprima saranno colpiti gli insediamenti industriali e
militari (comprese le centrali nucleari) mediante missili da crociera,
poi la parola passerà ai velivoli provenienti dalle
portaerei.
Circa
un anno fa, gli
USA condussero una lunga esercitazione aeronavale fuori dalle acque del
Golfo Persico, in pieno Oceano Indiano: perché tanta
prudenza?
La ragione ha un nome quasi gentile – Mosquit
– le zanzare fanno dunque paura alla macchina imperiale?
Mosquit
è il nome di un missile antinave d’ultima
generazione che i russi hanno venduto all’Iran: non si tratta
di un ferrovecchio sovietico, ma di roba moderna ed efficientissima. Il
Mosquit
è in grado di colpire bersagli navali – partendo
da postazioni terrestri – in un raggio di 200 Km:
praticamente, la navigazione nel Golfo Persico sarebbe interdetta.
Questa prima riflessione apre il ventaglio delle possibili opzioni
militari, giacché non dimentichiamo che i contendenti sono
due. Cosa possono opporre gli iraniani?
La componente aerea iraniana non potrà contrastare
efficacemente i velivoli USA, anche se di una nuova generazione di
velivoli – uno dei quali è l’Azarakhsh,
di produzione nazionale – si sa poco o nulla.
Si
sa invece che
l’Iran ha acquistato parecchi sistemi missilistici Tor-M1
russi, in grado d’intercettare sia velivoli sia ordigni in
arrivo, quali missili da crociera o bombe a guida laser. Alcuni
analisti affermano che i russi hanno venduto all’Iran anche i
radar S-300 ed S-400, che sono in grado di “vedere”
gli aerei stealth americani.
In definitiva, possiamo affermare che l’Iran non
potrà difendere a lungo le proprie installazioni industriali
e militari, ma siamo certi che – nonostante la coriacea
difesa che certamente eserciteranno, e che costerà parecchie
perdite agli USA – non sarà questa
l’arma degli ayatollah contro Washington.
Per comprendere i rischi dell’avventura dobbiamo riflettere
sullo scenario, sullo sfondo più che sui primi attori.
Anzitutto il Golfo Persico; il blocco della navigazione commerciale
provocherà un’impennata del prezzo del greggio:
cifre intorno ai 100$ il barile non sono lontane dalla
realtà, tanto che la banca d’affari
Goldman&Sachs le ha già prese in considerazione.
Ancor peggio sarà lo scenario politico e militare: non
dimentichiamo che la nuova classe dirigente irachena è
sciita: gli ayatollah iracheni hanno studiato a Qom, in Iran, come i
loro colleghi iraniani.
Figure
come Moqtada al
Sadr, come potranno giustificare il bombardamento dell’Iran?
Qualora gli ayatollah più moderati, come al Sistani, non
prendessero posizione a difesa dell’Islam sciita, sarebbero
immediatamente “scavalcati” dagli eventi.
Se gli USA si guarderanno bene dall’invadere un solo
centimetro quadrato d’Iran, non è assolutamente
detto che gli iraniani non attacchino le forze USA in Iraq ed in
Afghanistan, provocando l’esplosione della regione:
cos’avrebbero da perdere ad attaccare forze militari
già in difficoltà per controllare il territorio
dagli attacchi della guerriglia?
Da ultimo, un aspetto torbido della vicenda: perché Russia e
Cina hanno accettato il deferimento dell’Iran (loro alleato)
senza battere ciglio? Se ci fosse stata la solita manfrina (come per il
Kossovo), oppure l’atteggiamento decisamente contrario come
nel caso iracheno, potremmo affermare che le liturgie diplomatiche del
dopo guerra fredda sono state rispettate.
Un atteggiamento così arrendevole nei confronti di
Washington – che entrambe considerano un pericolo per i loro
interessi in Asia centrale – insospettisce: inutile far finta
di niente e credere a chissà quali accordi sottobanco.
Una nuova impennata del prezzo del greggio sarebbe salutata a Mosca
come manna scesa dal cielo – cosicché Putin
potrebbe stornare altri fondi per la ricerca militare, il secondo
mercato sul quale punta la Russia – ma nel medio periodo sia
Mosca sia Pechino sono determinate nell’arrestare
l’espansionismo USA in Asia centrale.
Più
difficile capire l’atteggiamento di Pechino; probabilmente,
la sempre maggior espansione dell’apparato produttivo cinese
richiede (per ora) di non entrare in aperta rotta di collisione con
Washington: la soluzione dell’apparente enigma è
tutta in quanto durerà quel “per ora”.
Fatto forse marginale – ma assai curioso – lo
scorso anno fu lanciato dal cosmodromo di Baykonur, in Kazachistan, il
primo satellite iraniano destinato – manco a dirlo
– alla sorveglianza militare del Golfo Persico. In caso
d’attacco americano (o israeliano) Teheran – a
differenza di Saddam Hussein – avrà un
“occhio” elettronico puntato sul Golfo Persico, un
satellite in grado di rilevare posizione e movimenti di navi, aerei
(compresi gli “stealth”) e missili.
Nelle acque del Golfo, inoltre, l’Iran ha due sottomarini ex
sovietici: non rappresentano certo una terribile minaccia per le navi
USA, ma tutto – in questa nuova avventura – deve
essere messo in conto.
Autorevoli ufficiali di Stato Maggiore di numerosi paesi europei
sconsigliano d’attaccare una nazione estesa e popolosa come
l’Iran, con forze armate non indebolite da precedenti
embarghi ed equipaggiate – in alcuni settori – con
materiali d’ultima generazione. Non dimentichiamo –
infine – che i missili iraniani Sharab III e IV possono
raggiungere – con testate convenzionali di una tonnellata
d’esplosivo – non solo Israele, ma il Mediterraneo
centrale. Gli Scud di Saddam Hussein – per avere un paragone
– avevano una testata di soli 100 Kg d’esplosivo
(minima, per aumentare la gittata) ma causarono la morte di 160 civili
israeliani (allora completamente negati). Uno Scud con 100 Kg
d’esplosivo sbriciola un’area pari ad un campo di
calcio: il lettore può facilmente comprendere cosa significa
un’esplosione di 1.000 Kg.
Da
ultimo, non
dimentichiamo che i missili iraniani potrebbero essere lanciati su
Israele con testate chimiche (e forse biologiche), e la rappresaglia
israeliana sarebbe molto probabilmente atomica. Dello stesso tenore
sono le velate minacce americane d’usare in Iran armamenti
atomici “di bassa potenza”, armi che provocano
un’esplosione nucleare sotterranea, ritenuta da Washington
“sicura” (sic!) per i civili.
Ciò che di “sicuro”
c’è in tutta la vicenda è la
disperazione, il terrore della prima potenza mondiale di perdere il
predominio economico e militare: potranno – gli USA
– barattare gli effetti di una guerra terrificante e dai
foschi confini con lo spettro della destabilizzazione interna, causata
dalla ripida china discendente del dollaro sui mercati
finanziari?
Nelle settimane che seguiranno ci saranno senza dubbio frenetiche
consultazioni diplomatiche, ma il sospetto che l’attacco
all’Iran sia visto come una puntata troppo alta anche per i
potenti USA inizia a farsi largo: gli USA – nella nuova
avventura – non avranno pressoché nessuno (a
parte, forse, Israele) al fianco.
C’è puzza di morto in questa vicenda, inutile
negarlo, puzza di morto e d’inganno come mai era avvenuto in
passato, né in Kossovo e né in Iraq: nonostante
le roboanti boutade,
gli USA del 2006 sono il pallido spettro del pugile che – nel
1991 – iniziò la prima Guerra del Golfo.
Se Bush deciderà di giocare il tutto per tutto –
trascinando i sempre più dubbiosi americani
nell’ennesima “guerra patriottica”
– s’avvieranno solitari verso le calde acque del
Golfo Persico come – nel freddo dicembre del 1941 –
le navi dell’ammiraglio Chuichi Nagumo
s’avvicinavano a Pearl Harbour.
Carlo Bertani