C’ERA
UNA VOLTA…(e guardate che non erano poi i tempi di Carlo
Cudega!)
C’era una volta la scuola elementare, già scuola
dell’obbligo: prima e seconda classe, poi esame per passare
al triennio che portava alla licenza elementare. Da qui,
l’esame d’ammissione per la scuola media, presidio
dei figli dei ricchi, che in seguito avrebbero sicuramente proseguito
negli studi. Per alcuni ragazzi, intellettualmente meritevoli, si
aprivano le porte della scuola commerciale, (steno, dattilo,
computisteria e cultura generale) che dopo tre anni rilasciava
l’attestato col quale avrebbero potuto aspirare ad un impiego.
Per tutti gli altri – salvo quelli che venivano invogliati ad
inventarsi la vocazione sacerdotale, per entrare in seminario ed
iniziare così un percorso culturale – si
prospettava il mondo della manovalanza.
Pochi, pochissimi i figli di operai che avevano l’onore di
accedere alla scuola media e poi a quella superiore. Un onore condito
d’immani sacrifici e umiliazioni, perché se tanta
era l’intelligenza e massima l’attenzione
alle lezioni dei professori, pochi erano i libri di testo che potevano
concedersi, per cui riuscire a studiare le lezioni ed eseguire i
compiti con diligenza, risultava sempre una dura impresa:
dovevano approfittare del prima e del dopo delle lezioni e di ogni
momento di pausa per poter usufruire dei libri dei compagni disponibili
al prestito.
Tuttavia, qualcuno riusciva persino a frequentare
l’università, ma il loro successo era visto da
tanti, non come il risultato di un’ottima intelligenza
abbinata ad un’encomiabile forza di volontà, ma
come intrusione indebita in un mondo riservato ai ricchi: “La
crisi della medicina nasce dal fatto che tuo nonno, tuo padre, come il
mio, facevano già i medici! Oggi tu vedi il figlio di un
salumiere o di un meccanico che si iscrive a medicina!”
(“La Malacarità”)
Sì, c’erano una volta la scuola media
e quella superiore, e ci sono ancora adesso, con la
differenza che non sono più riservate a pochi fortunati.
Oggi in Italia, ricchi o disagiati che siano, tutti i ragazzi
non solo possono, ma devono frequentarla, perché
è divenuta scuola dell’obbligo.
Il
punto è questo: si ha ancora la consapevolezza che il
poterla frequentare è frutto di una importante conquista? Oppure
anche la scuola, come tutte le cose agognate e che poi diventano
comuni, ha perso il suo luccichio?
Troppo spesso si legge di ragazzi che frequentano la scuola con
insofferenza e che, durante il tragitto casa-scuola e nelle pause tra
una lezione e l’altra, trovano il tempo per
“rilassarsi e divertirsi” compiendo atti di
bullismo e di vandalismo. Senz’altro più volte
è stato chiesto loro, come a tutti gli altri svogliati,
d’immaginarsi parte di quel mondo in cui, per guadagnarsi il
privilegio di sedere su di un banco di scuola, ci si doveva sottoporre
a enormi sacrifici.
Purtroppo è risaputo che entrare con
l’immaginazione nel passato remoto ed addentrarsi in
luoghi fantastici, per combattere contro draghi e fantasmi,
può essere facile, ma entrare nel passato prossimo, quello
vissuto dai propri genitori, risulta assai difficile se non
impossibile. Ognuno vive con la realtà e le
difficoltà del proprio tempo… Come capire il
rammarico di chi non ha potuto frequentare una scuola, quando il
doverlo fare quotidianamente è estremamente pesante e
impegnativo?
Forse potrebbe servire loro la lettura di racconti di vita
vera, come “Alla scola à
scire!” che Lucia
Verdesca ha presentato al concorso dialettale vegliese
“Lithratti ti Eie” (promosso nel dicembre 2004
dagli Amici della fotografia e dal sito Veglienews, nel quale lo si
trova pubblicato).
O anche rintracciare quella rappresentanza di cittadini vegliesi,
utenti della scuola serale nell’anno 1952/1953, la cui foto
di gruppo è stata inserita nel volume “Compagni di
Scuola” dall’autore Enzo De Benedittis:
senz’altro risulterebbe molto interessante conoscere il
perché, il percome e tutte le difficoltà di
quella scelta
scolastica.
La
scuola, una grande risorsa per il collettivo e
l’individuale vantaggio…
Alla domanda, “che scuola hai frequentato”? capita
spesso di sentirsi rispondere:
“L’università della vita”.
Come se fosse reputata più importante l’esperienza
lavorativa, piuttosto che l’esperienza scolastica.
E’ indubbio, chiunque può trasformarsi in
autodidatta per migliorare la propria cultura. Ma ci deve essere una
buona base scolastica, per sapersi destreggiare tra metodi e strumenti
di ricerca. Sempre che ci si riesca, bisogna tenere conto che
all’autodidatta manca una cosa importantissima: il confronto
con gli altri. Una cultura, per quanto ricca di nozioni, resta monca se
priva di scambi e di confronti. Comunque, resta il problema
degli attestati, dei diplomi e delle lauree: se
nella vita privata se ne può fare a meno, nel mondo del
lavoro sono indispensabili, prima per poter accedere ai vari concorsi
per essere assunti, poi per evitare le cocenti delusioni di vedersi
sorpassare per promozioni e/o cariche direttive da elementi di minor
capacità, ma in possesso dei requisiti cartacei. Lo stesso
vale per chi intende aprire un’attività in proprio.
C’è stato un tempo in cui la scuola restava per
tanti un miraggio, mentre per pochi altri diveniva
un’alta vetta da scalare tra mille avversità ed
anche tra mille aspettative di chi stava intorno: il rispettoso
” tu che hai studiato…” se lo
sentivano pronunciare all’infinito.
Oggi che la frequenza è diventata una normalità,
è certamente giusto che venga vissuta con
serenità e che ognuno possa scegliere, tra le mille
opportunità, quella più consona alla propria
indole. Ma non deve mancare la coscienza che l’acquisito
diritto allo studio resterà lettera morta, tempo perso, se
non sarà accompagnato da un serio adempimento dei doveri
propri di ogni studente.
La scuola, questo tesoro d’incommensurabile valore, tra il
susseguirsi di governi e di ministri, veleggia in un mare di riforme e
controriforme. Auguriamoci che, per il bene di tutti, venga sempre
tenuta aggiornata, al passo coi tempi, e strettamente collegata al
mondo del lavoro.
dania