"Non hanno più vino"
di: Dania, maggio 2001
Sono triste. Se ne sentono di cose tristi a questo mondo! Sono un vigneto dei colli piacentini. Mi hanno impiantato qua sulla costa della collina tanti anni fa e ho subìto il bello ed il cattivo tempo. Ho conosciuto la forza e la debolezza, l’abbondanza e la carestia, il gelo, l’arsura e la tempesta.
…ma quello che mi hanno detto oggi, è troppo pesante!…
Avete capito bene? Sono un vigneto, un campo vitato, non un campo qualsiasi coltivato a grano, mais o erba medica. Vedete, tra me e loro non può esserci paragone: quello che fa la differenza è il rapporto col padrone.
Per esempio, guardate quel campo di frumento là in fondo, ho osservato i lavori: il contadino, in un andirivieni col trattore, ha concimato il terreno, l’ha arato e anche spianato, poi è passato con la seminatrice. Ora aspetta giugno con la festa dei SS Pietro e Paolo per entrarci con la mietitrebbia. Sarà contento se il raccolto sarà abbondante. E, se l’annata è di quelle buone, avrà anche un buon guadagno. Ma, fra lui e quelle piantine con la spiga, non c’è stato che un contatto marginale.
Volete mettere? Un campo è un campo, uno vale l’altro, ma il vigneto è qualcosa di diverso, il vigneto è “una creatura” per il coltivatore.
…ma tu pensa cos’è successo lassù…
Prima di impiantare un vigneto il contadino deve analizzare il terreno, studiare le condizioni climatiche e scegliere il vitigno adatto per quella località. Deve studiare l’orientamento da dare ai filari affinché le viti possano godere il massimo possibile della luce solare. E deve tenere conto della distanza tra un filare e l’altro, perché dovrà passarci in mezzo con le macchine agricole per le varie operazioni di viticoltura.
…scusate se parlo concitato, ma le notizie come quelle di oggi mi fanno stringere il cuore…Ho perso il filo, dove eravamo arrivati?…
Ecco,
dicevo, una volta studiate tutte queste cose, il contadino dovrà provvedere
allo scasso del terreno, cioè ararlo il più profondamente possibile, col
vomere più potente, creare profondi solchi,
tanti quanti dovranno essere i filari, segnare e concimare per bene la
posizione in cui sistemare le barbatelle, le nuove piantine, (di solito già
innestate e coltivate in vivaio per uno o due anni), che richiederanno, una
volta piantate, d’essere sostenute nella loro crescita, per cui il padrone
dovrà essere deciso sul modello di allevamento, se ad alberello o a cordone,
ecc., per piantare sul campo pali, paletti e tendere fili di ferro, sui quali si
appoggeranno i tralci vigorosi.
A
questo punto il lavoro non è finito, anzi, il contatto col contadino si farà
ancora più intimo, individuale. Lui
non potrà limitarsi ad ammirare il rigoglio della vegetazione, ma dovrà
avventurarsi nel campo e come un generale passare
in rassegna ad una ad una le piantine. Dovrà provvedere alla sbarbettatura in
superficie, per costringere le radici verso la profondità, alla ricerca
dell’umidità necessaria alla vita. Dovrà provvedere alla spollonatura, per
dar forma alla pianta e per non lasciarla sfruttare inutilmente dai succhioni,
quei grossi polloni sfortunatamente cresciuti in posizione sbagliata. Dovrà
evitare che i buoni tralci s’intreccino fra di loro, creando una crescita
selvaggia, senza regole e senza indirizzi, come un groviglio confuso di
rampicanti.
Come
se non bastasse, dovrà tenere un occhio rivolto verso il cielo e un altro verso
le bacheche del consorzio vitivinicolo, per essere pronto per le irrorazioni
sistemiche anticrittogamiche, senza eccedere e senza lesinare, a tempi
prestabiliti e dopo ogni accenno di pioggia, perché l’oidio e la peronospora,
i dannosi funghi ed altri parassiti sono sempre in agguato.
E
in inverno dovrà praticare la potatura, con pazienza e con sapienza, perché da
questa operazione dipenderà tutto il lavoro della vite per uno o due anni a
venire.
Tutto questo ancora prima dell’inizio della produzione dell’uva, per la quale si dovrà attendere altri due o tre anni. Lo vedete anche voi che tra vigneto e contadino il rapporto non può che essere viscerale.
…un vigneto di otto anni… Il momento della soddisfazione dopo tanto lavoro… Un potente diserbante hanno irrorato su questo mio giovane uguale…
Quando
senti che il padrone ti ama e ti cura a dovere, desideri dargli soddisfazione,
producendo il massimo ed il meglio: quel povero vigneto non potrà produrre che
lacrime per il suo padrone e non si sa per quanto tempo!
La
conosco la terra di Puglia, generosa, ma gravosa da coltivare. La conosco perché
è arida e dura come la mia d’estate, quando la pioggia si lascia desiderare.
Conosco la fatica costata agli uomini per riuscire a renderla produttiva. E ne
ho visti di volti rigati di sudore!
Lo
conosco quel vino forte del Sud. E’ servito anche al mio padrone negli anni
passati, quando ancora non era nata la sigla DOC, per rinforzare il mio, che per
le troppe piogge era risultato debole e avrebbe rischiato d’inacidirsi presto.
…ho saputo che
altri vigneti hanno subito quello scempio…non ci posso credere…che
tristezza! … è stato, ora, con questi gesti sconsiderati, soffocato
l’entusiasmo!..
“Non
hanno più vino”. Ancora gli uomini dovranno ripetere quest’accorata
osservazione/preghiera presentata da una Madre al proprio Figlio durante un
pranzo di nozze a Cana,?
Giunga
da un vecchio vigneto dei colli piacentini, agli sfortunati vigneti di Veglie,
tutta la solidarietà e l’augurio che possano risentire presto la voce allegra
dei loro padroni pronunciare il dolce invito: venite a degustare un bicchiere di
quello buono, di quello di casa nostra!
Dania