LA COSTRUZIONE DELLA DEMOCRAZIA

Giovanni Caputo  * 06 maggio 2005 *  Torna indietro...  Chiudi la pagina web (politica)

Il difficile mestiere di scegliersi gli amministratori

Per funzionare bene, una democrazia ha bisogno di un coinvolgimento molto ampio: uomini e donne sempre più numerosi che seguono, s’impegnano, partecipano e controllano i momenti in cui, attraverso scelte che privilegiano i diversi interessi degli amministrati, si esplica l’attività di governo. La partecipazione diventa così non solo comprensione delle scelte, ma anche condivisione, e qualora questo non fosse, sarebbe comunque controllo, affinché queste scelte siano, quantunque non condivise, corrette nella procedura ed economicamente trasparenti e utili, visto che i costi di ogni scelta ricadono sulle casse del pubblico erario, alimentate e sostenute dai contribuenti. Le modalità della partecipazione attengono a scelte individuali. La passione, il carattere, l’indignazione, l’autostima, il tempo disponibile, il tipo di lavoro ed altri variabili fattori sono alla base di ogni scelta. C’è però la convinzione diffusa che la partecipazione alla vita pubblica si esaurisca nella candidatura al seggio di un qualsiasi organismo di governo degli enti locali  (consiglio comunale, provinciale, regionale ). Spesso accade che tutto si conclude nel momento in cui le aspettative di essere eletti non si realizzano. Cosa abbiano fatto prima e cosa facciano dopo per il pubblico interesse questi candidati, che aspiravano all’elezione nel consiglio delle diverse assemblee,  non è lecito sapere. E nessuno se ne dà peso.  Non ci si rende conto che quello di cui si sta parlando altro non è che il sistema di reclutamento di una classe dirigente, chiamata a gestire il territorio, la salute, l’ambiente, la scuola, i trasporti, la viabilità, in altre parole la qualità della vita dei cittadini. Nessuno si chiede dove questi candidati abbiano acquisito le competenze per gestire la cultura, la sanità, il bilancio, le attività produttive, l’urbanistica, il commercio e tutto ciò che emerge da un territorio che aspira a crescere. Ecco che la partecipazione assume un significato ampio e non può essere limitata alla semplice candidatura, offerta per altro solo a chi si pensa sia in grado di intercettare consensi, indipendentemente dalla capacità di offrire risposte credibili  ai bisogni di una comunità, divenuta sempre più complessa. I ruoli non possono essere assunti in rapporto ai consensi, benché questi siano necessari alla vittoria di uno schieramento. Per fare un esempio, l’assessore Cascione (e per la verità non solo lui, nell’attuale maggioranza sono in sei)  s’interessa da oltre un ventennio di politica: dopo un’esperienza amministrativa fallimentare, è riuscito a riciclarsi nella nuova compagine di governo e gli va riconosciuto e assegnato il premio “transumanza” ex equo con altri quattro. Potrebbe gestire egregiamente un ristorante,  perché si ostina a voler fare l’amministratore? Quali sono i meriti che si attribuisce, visto che, dopo vent’anni, nessuno gliene riconosce di utili per il paese? Ciononostante ottiene un discreto consenso elettorale. Ora è chiaro che non è la Fortuna ad essere bendata, ma qualche elettore si distrae e rinuncia al suo diritto di scelta in favore dell’appagamento dell’IO arroventato del nostro concittadino. In questo caso i cittadini/partecipanti, non volendo esprimere un giudizio di merito sull’attività politica esercitata in tanti anni, da questo o quell’altro amministratore, rinunciano alla formazione di una nuova classe dirigente. Nulla di male. La storia continua. Ma la qualità della rappresentanza si abbassa e con la rappresentanza si abbassa la qualità delle scelte, che la classe politica è chiamata ad operare, e ciò comporta l’incancrenirsi  dei problemi, che gli amministrati sperano vengano risolti. Ecco che nel momento in cui il cittadino è chiamato a sostenere, attraverso la sua partecipazione attiva e responsabile, la qualità della rappresentanza nella gestione pubblica, il cittadino/elettore rinuncia in favore dell’amico,  del parente  o dell’erogatore di un temporaneo servizio. Scelta in questo modo, una classe dirigente è priva dei requisiti minimi per amministrare anche un condominio: i disastri sono assicurati. Ma non è tutto. L’insipienza amministrativa e il vuoto progettuale vengono colmati da faccendieri di diversa natura che, frequentando i palazzi degli enti, propongono le idee più strampalate, pur di ricevere incarichi, traducibili in lucrose parcelle. Gli amministratori, nel tentativo di realizzare opere, che permettano loro di presentarsi agli elettori con qualcosa di concretizzato, non conoscendo i bisogni del territorio, aderiscono alle diverse proposte impegnando risorse su interventi non qualificati e non  richiesti. La sfiducia e il qualunquismo sono le risposte dei cittadini  ai fallimenti di questa classe dirigente che, anziché amministrare la complessità sociale ed economica di una comunità, esaurisce il suo ruolo con qualche promessa, qualche favore e se va bene qualche chilometro di tappetino, anche perché non è in grado di pensare altro. Promesse, favori e tappetini sono sufficienti per farsi rieleggere, ma  non servono a migliorare i servizi, a riqualificare le periferie, a realizzare infrastrutture, a tutelare il territorio, a sostenere i settori produttivi, a creare sviluppo, a difendere i prodotti locali, a  valorizzare le intelligenze presenti nel paese, a far camminare una macchina burocratica stanca demotivata e priva di entusiasmo. Ora l’ambizione a voler amministrare il proprio paese è legittima e non contrasta con nessun principio etico, a condizione che l’amministrare non sia fine a se stesso, ma abbia una finalità pubblica,  dichiarata e quindi controllabile. Il cittadino da parte sua, se tiene al bene della propria comunità, deve scegliere i suoi amministratori  dopo averne verificato la competenza nella gestione. A guadagnarci sarà l’intera comunità.   

 

Giovanni Caputo