Il frantoio ipogeo
di largo s. Vito a Veglie
di Flavio Vetrano
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da: Archroveglie
Recentemente, in occasione di alcuni eventi culturali, è stato reso fruibile al pubblico il frantoio ipogeo situato nell'antico borgo di S. Vito. Recuperato1 , è divenuto un piccolo "museo" d'archeologia industriale di gran rilievo storico - culturale. L'interno, molto suggestivo, riesce a coinvolgere emotivamente il visitatore proiettandolo direttamente in uno spazio e tempo lontano da quello odierno. Questo pone davanti agli occhi quello che è stato il crudo lavoro degli uomini, degli animali ed il processo produttivo.
Il frantoio, conosciuto oggi come il trappeto ipogeo di largo S. Vito, è uno dei tre indicati nel borgo, vicino alla chiesa di S. Vito, nei documenti del 15002 . Nel 17493risulta di proprietà di Nicola Maria Greco, nel 1763 4 del Capitolo della terra di Veglie oggi di proprietà comunale.
Il Sito
Anche se il suo ingresso è collocato su di un'area di pertinenza comunale tra Via Novoli, Carmiano e Cavallera, l'ipogeo prosegue sotto il piano stradale e due costruzioni di via Novoli. Sull'area sono presenti una cisterna a campana per l'approvvigionamento idrico e una fossa quadrata per lo stoccaggio.
La tipologia
Lo schema planimetrico è mistilineo, formato da un unico grande vano centrale e da altri minori articolati principalmente su tre lati. (Dis. 1) Questo è divisibile in tre tipologie d'ambienti, rispondenti a specifiche funzioni.
Il primo più ampio, collocato all'ingresso, è lo spazio della molitura. Questo permetteva altre attività del processo produttivo e di riposo, delle persone e degli animali. Il secondo con il soffitto più basso, posto al centro, è quello della torchiatura. Il terzo, situato soprattutto sui lati, è quello del deposito formato dall'insieme di piccole cellette di stoccaggio, per olio, le olive e la sansa. All'interno si accede tramite una scala che immette direttamente nell'ambiente principale.
Impianto e attrezzature
Il frantoio di medie dimensioni è composto di: una vasca con una pietra molare; quattro torchi "cuensi", tre alla calabrese e uno alla genovese; alloggiamenti per pali verticali in legno "alberi; quattro pile di decantazione "angili"; un pozzo "sintinaru" per la raccolta dell'acqua di vegetazione "sintina"; una postura per l'olio con tre pile; un deposito con cisterna e pila sull'angolo; 6 "sciave", di cui tre al momento risultano semi aperte e tre chiuse; un deposito per sansa "infiernu"; uno spazio adibito a stalla; due gradoni ad angolo scavati nelle pareti, adibiti al riposo delle persone; uno spazio per il camino.
La mola olearia (Foto 1) è formata da una vasca con al centro una base circolare, "petra ti funnu" in pietra dura " petra ia", e da una pietra molare, "petra ti lu trappitu", fatta girare intorno ad un'asse verticale di legno "arganu" dall'azione di una stanga spinta da asini.
Ogni torchio "cuensu", è dotato da una base in pietra dura circolare"delfino" e una pila di decantazione "angilu"in pietra leccese "liccisa" incassati nel banco tufaceo. Quello alla calabrese (Foto 2) è caratterizzato da due grandi viti senza fine di legno"fusuli", poggiati su basi in pietra tufacea, un pancone di legno molto pesante e due dadi controfilettati,"capu ti lu fusulu" con piccole leve, che si avvitano e svitano sulle singole viti. Quello alla Genovese (Foto 3) "manna" è formato da una mono vite con testa "capu ti lu fusulu" in cui era inserita la leva "stanga", una panca più sottile che scorre in due guide e una trave di legno superiore "palombola" controfilettata che accoglie il vitone. La base "delfino" è più larga rispetto a quella dei torchi alla calabrese, per questo erano utilizzati i "fiscoli" e le "pasture" grandi per "manna". Anche se all'interno sono presenti due alloggiamenti per torchi alla genovese, solo uno è stato attivo, in quanto completo di "delfino" e di pila di decantazione.
L'albero" (Dis. 2), non ricostruito all'interno del frantoio, era un congegno utilizzato come moltiplicatore di forza. Fatto girare con delle piccole leve dagli addetti, avvolgeva una grossa corda collegata alla leva del torchio trasmettendogli una prolungata pressione.
Le "sciave" sono caratterizzate da celle rettangolari, tranne una semicurva di diversa fattura posta sulla parete d'ingresso. Prima erano tutte chiuse da un muro di tamponamento, servite da un passaggio. Ora ne rinveniamo solo una, fornita d'apertura a porta e due a finestre, su cui alloggiavano le ante che chiudevano gli ambienti per facilitare il riscaldamento e la fermentazione delle olive. Queste sono riconoscibili soprattutto dalla presenza di altri due elementi: dal foro verticale sul soffitto delle celle, da cui erano versate all'interno le olive dal piano stradale; dal canaletto inciso sul pavimento interno delle celle, che convogliava l'acqua rilasciata dalle olive durante la fermentazione in un pozzetto esterno. Rispetto all'ambiente principale, i loro piani di calpestio sono rialzati di un gradino.
Il pozzo per raccogliere l'acqua di vegetazione, profondo circa 8-9 metri e largo 1,50, è situato al centro di tre pile di decantazione, leggermente sottoposto.
Lo scavo
Se pur il frantoio è completamente scolpito "zùccatu" nel banco tufaceo, si riscontrano al suo interno vari interventi di scavo eseguiti in tempi differenti e la costruzione in blocchi di tufo, di pilastri, pareti e piccole volte. Le parti aggiunte sono state realizzate per rinforzare la struttura, sistemare piccoli crolli, chiudere e dividere alcuni ambienti.
Lo scavo è realizzato con l'aiuto di piccoli attrezzi, tra cui una zappetta "zùeccu", da specifiche maestranze "zùccaturi". Una volta realizzato l'ambiente d'ingresso, un atrio scoperto con gradoni, con il metodo dello scavo verticale, dall'alto, si è proceduto con lo scavo orizzontale degli ambienti, con piani di calpestio e altezze differenti, realizzando per prima il soffitto, poi le pareti laterali verticali, per ultimo piano di calpestio.
Incisi nel tufo, si possono leggere tutti quei segni lasciati nel tempo dal lavoro degli uomini, e degli animali. Particolare è il solco creato dagli asini intorno alla macina, "lu carrarieddru ti lu ciucciu". Sulle pareti sono incise due croci, delle piccole aste e numeri per fare i conti.
Caratteristico è lo scavo posto in fondo, in cui era depositata la sansa, che segue l'antico metodo d'escavazione dall'alto in uso nelle cave. Tutti gli elementi che lo costituiscono sono differenti dal resto, scavati orizzontalmente, più vicini ad una cisterna o fossa granaia allungata inglobata al frantoio durante la sua realizzazione o ampliamento: Le pareti laterali sono scavate concave, allargandosi nella parte inferiore; la volta costruita con conci di tufo presenta un foro quadrato; la pianta allungata, trapezoidale; il piano di calpestio più basso di un gradino; lo scavo più liscio. (Foto 4)
Morfologie e strutture d'ambienti simili si riscontrano in altri luoghi, è non sono collegati ai frantoi: Una si accerta a pochissimi metri dell'ipogeo, sotto il piano stradale di Via Novoli (Foto 5); un'altra all'inizio della strada sferracavalli, allu menga (Foto 6); due più lunghi alle spalle del cimitero a Veglie (Foto 7 ); tre semi distrutti nell'antichissima abbazia medievale di S. Maria delle Tagliate a Nardò (Foto 8 ); due a Monteruga, tra il villaggio e la masseria Ciurli. Un altro ambiente con le pareti concave chiamato la grotta dei cordari, scavato su una parete rocciosa di una grande cava, è presente nel parco archeologico greco-romano a Siracusa. (Foto 9 )
Il processo produttivo
Il conferimento delle olive al frantoio avveniva dalla strada. Attraverso dei fori verticali scavati nel tufo si versava il frutto direttamente all'interno delle "sciave" nell'attesa della molitura. Per produrre l'olio commestibile il frutto era macinato nell'arco di poco tempo, per quello pesante, molto acido e grasso, destinato alle industrie ed all'illuminazione, le olive erano tenute nelle "sciave" a lungo, chiuse da ante, per farle riscaldare e fermentare.
Il frutto, immesso successivamente nella vasca di molitura, era franto dalla ruota "la petra ti lu trappitu". La pasta prodotta era infilata nelle "pasture" grandi , poggiata sui fiscoli e sottoposta alla prima pressatura col torchio alla genovese. Successivamente, rimpastata, era infilata nelle "pasture" più piccole posate sui fiscoli e rispremuta col torchio alla calabrese. Il liquido che fuoriusciva era convogliato, da un incavo circolare presente nei delfini, in un canaletto che lo immetteva nella pila. Qui avveniva la decantazione; l'olio si separava dall'acqua di vegetazione "sintina". L'olio era raccolto in un recipiente, con un piatto molto schiacciato chiamato "mappu", e depositato all'interno delle pile o della cisterna prima del trasporto. L'acqua di vegetazione "sintina" era raccolta con le "quartare" dalle pile di decantazione e convogliata tramite dei canaletti incisi nel tufo nel pozzo d'assorbimento "lu sintinaru". La pasta spremuta "sansa" era depositata in un ambiente specifico, "l'infiernu" in quanto riscaldandosi produceva molto calore, nell'attesa di essere estratta dal piano stradale attraverso un foro e smaltita.
Conclusione
Il recupero e l'apertura dell'ipogeo per pochi giorni è stato un grande evento per tutta la comunità manifestato con l'enorme partecipazione e interesse.
Impegnarsi per la sua valorizzazione e apertura definitiva, sarà un altro obbiettivo importante da raggiungere per il futuro.
Note
1- ANTONIO MONTE, Progetto definitivo ed esecutivo per il recupero del trappeto ipogeo di Largo San Vito, http://www.Veglieonline.it/ consultato il 02/03/2010.
ANTONIO MONTE, Le miniere dell'oro liquido, Archeologia industriale in terra d'Otranto: i frantoi ipogei, ed. del grifo, Lecce, 2000, pag. 55.
A seguito di un cedimento della strada,… avvenuta nel 1996, l'amministrazione …nel mese di giugno 1999 diede incarico per l'elaborazione del progetto preliminare di recupero del frantoio. Il progetto è stato in parte finanziato (65%) dal gruppo di Azione Locale Nord-Ovest Salento "Terra d'Arneo" Programma leader II,Sottomisura 3: Turismo rurale _ Azione 3.1 del Pal e in parte (35%) dai singoli enti beneficiari cioè dal comune.
2 -FLAVIO VETRANO, Antichi frantoi a Veglie, nei documenti storici, Controvoci, Veglie, anno XIV n°1 - marzo, 2011.
3 - A.S.L. Catasto Onciario di Veglie del 1749.
4 -A.S.L. Catasto Onciario di Veglie del 1763.
5 -Le "pasture" erano dei sacchi circolari con un foro centrale, in cui veniva inserita la pasta delle olive, sistemate tra due fiscoli e incolonnate. Queste non permettevano alla pasta di fuoriuscire dai lati durante la spremitura.
Flavio Vetrano
Deposito Sanza
Tavola illustrativa interno del frantoio
Dis 2 Albero
Dis 1 Esempio di Parete arcuata nelle cave frutto dell’antico metodo d’escavazione dall’alto - Cava via monteruga Veglie
fossa granaia a S. vito di Nicola
Foto 1 Macina
Foto 2 Macina e torchio alla Calabrese
Foto 3 Torchio alla Genovese
Foto 4 Deposito Sanza
Foto 5. Fossa granaia a S. vito
Foto 6. invaso allu menga
Foto 8. S M delle Tagliate Nardò
S. M. delle Tagliate Nardò
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Il frantoio ipogeo di largo s. Vito a Veglie
flavio vetrano
19/07/2011
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