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  "LE POESIE DI ZIU ROCCU"  
Autore Capitolo Data
MarcoSole Invernale15/01/2008 10.00.53
Sole invernale

Sole invernale
Assaggio di primavera
di luce solo nel pensiero
Come un ricordo
di gioventù
ben scolpito e mai riposto
nutrito di arido presente.

Marco

Silvano GuglielmiCiao, me ne vado a Betlemme!
Ciao, me ne vado a Betlemme

Ciao, me ne vado a Betlemme!
Ho bruciato lungo le notti
la luce degli occhi
per guardare le stelle
e cercare la Sua,
fatto anch’io Re Mago,
che conosce i segreti dei cieli.

Ciao, me ne vado a Betlemme!
Nel cuor della notte
M’è giunta all’orecchio
la musica dolce degli Angeli,
che parlan di pace
e cantano “Osanna
nell’alto dei cieli”:

Ciao, me ne vado a Betlemme!
Mi unisco ai pastori e alle greggi,
affrettando il mio passo impaziente.
La bisaccia è ricolma
di doni e di sogni:
gli uni e gli altri per Lui,
il Figlio di Dio disceso dai cieli.

BUON NATALE!

Silvano Guglielmi

MarcoBanco alimentare
Banco alimentare

Avvolto nell’oscurità autunnale
e nel silenzio di fine lavoro
penso

a una Italia pullulante
che mescola rumore
a luce artificiale
a surrogato di vita

mentre più in là
in solitudine
qualcuno soffoca
lacrime e fame.

Marco

daniaLeggete STENDHAL
E' vero: Stendhal si scrive Stendhal e non come ho storpiato io. Purtroppo su internet altri storpiano come ho fatto io. Ma non è una scusante: Avrei dovuto essere più precisa. Mi scuso con gli utenti di Veglieonline e ringrazio Esiliato per avermi fatto notare l’errore tramite Controvoci. Dania (quelli del sito, hanno comunque riscritto Stendhal!)
daniaLA SINDROME DI STENDHAL
L’ordine e il decoro, in casa ed in giardino
son sempre assai piaciuti a Mesciu Cosimino.

Di spirito assai libero, in ozio non sa stare,
fortuna che in famiglia c’è sempre un bel daffare.

Dal canto suo, Nicola, il figlio prediletto,
conosce storia e origini di ogni vecchio oggetto.

Due menti, due pensieri… rispetto a tutto andare,
eppure questa storia, è potuta capitare:

L’androne dietro casa, in zona Santo Vito,
è chiuso e ben protetto da un solido portone

che per struttura antica, in solido massello,
par proprio somigliare a quello di un castello.

Passandogli d’appresso, Maestro Cosimino,
guardando sentenziava: “Che vecchio, poverino!”

“Rimboccherò le maniche, dovrò forse sudare,
ma una rinfrescata, gliela si può negare?

Di certo non sapeva che col suo borbottare
cozzava contro, e tanto, a quell’altrui pensare:

Sfiorando il suo portone col dorso della mano,
Nicola progettava, parlandogli assai piano:

“Pazienta: aspetto mi si offra aiuto volontario,
per farti ritornare al bello originario:

con smeriglio doppiozero avrai una carteggiata,
e poi, con diligenza, un’intensa lucidata…

… un tocco di vernice, per legno, trasparente,
così, rimesso a nuovo, ti ammirerà la gente!”

Ricorda, intanto Cosimo, che colla verniciata,
aveva rinverdito la vecchia cancellata.

Trovata in ripostiglio la tinta già testata,
s’accinge ad assestare la prima pennellata,

poi, di buona lena, prosegue a tinteggiare
finché su quel portone s’affaccia giusto… il mare.

Che foto!…Che bel poster!… Torre Lapillo pare…:
Sovrastano due nubi il bel verde del mare…

“Con la scala, certo, avrei meglio completato”,
scuote la testa Cosimo, mirando l’operato…

Per tanto serio impegno non si farà pagare:
la pacca sulla spalla non gli verrà a mancare!

Telepatia?
Nicola corre e arriva, alquanto trafelato:
di fronte al suo portone, s’incanta… è estasiato…

La…sindrome di Sthendal, ci sembra di capire…
Coglie chi ama l’arte… Eh sì… non c’è che dire!

dania

ma smettila!!!
"Dania mi hai tradito!" Ma smettila una buona volta! Se davvero ti interessa l'aiuto di Dania, manda la tua mail alla redazione e fatti mettere in contatto con lei. Non hai nessun problema, te lo dico io, vuoi solo perdere tempo e farne perdere agli altri.
fcdove sono finite le "chianche" di piazza Umberto I°?
Mi chiedo... Ma dov'è andato a finire il basolato che era ai piedi della fontana in piazza Umberto I° ??? Anche quello è scomparso insieme al resto della piazza??? Se qualcuno ha notizie in merito si faccia avanti... Auspichiamo che venga ritrovato e restituito alla cittadinanza per un' eventuale altra collocazione...
Nicolaci MicheleRicordi della Grande Guerra01/01/2000
Ricordi della grande guerra
I miei ricordi dei fronti di guerra che ho affrontato durante gli anni 1940-1945.
Gennachi NicolaUn inverno da lupi
Era l’inverno del ’47, il mese di gennaio e la seconda guerra mondiale finita da qualche anno aveva liberato i suoi spettri che, incontrastati popolavano i paesi del nostro Salento. La disoccupazione, la povertà e la fame dilagavano incontrastate tra la gente. La fame vera, quella da mancanza di pane, era uno dei motivi principali che spinse i contadini dell’Arneo, nel Natale del ’50, ad occupare le terre incolte della fascia costiera e fu durante questa occupazione che videro le loro biciclette distrutte dall’intervento della polizia. Fu proprio la fame e la disperazione di quel lungo inverno del ’47, che portò un gruppo di disoccupati, in sella alle loro sciancate biciclette, dentro la “fattizze ti l’Antagiani”. La masseria Vantaggiani, in quegli anni era stata presa a mezzadria da più coloni: chi gestiva le pecore, chi coltivava il tabacco, chi, come Mimino e Nnino, avevano preso a mezzadria due giovenche e alcuni ettari di terreno da coltiva a seminativo. Nelle masserie il lavoro c’era e la fame, a conferma di quanto sostiene un vecchio proverbio, si riusciva a contenerla ( cumentu e massaria tre mije larga la caristia) . Mimino, il più grande dei due giovani reduci dalla guerra, vedendo un manipolo di una quindicina di persone, con un fare baldanzoso e strafottente avvicinarsi ai terreni della masseria dalla direzione di S. Pancrazio, interruppe il suo lavoro e cominciò a tenerli d’occhio. Arrivati nella “fattizza “ questi poveri disgraziati cominciarono chi con “ lu zzappune” e chi con “la sarchiuddra” a “fare pampashiuni”. Non essendoci altro da mangiare ci si accontentava di fare “na sciotta” di lampagioni per contenere i morsi della fame. Purtroppo avevano sbagliato ad entrare nella “fattizza”, perché le piccole fosse, fatte per estrarre i lampagioni, avrebbero rovinato il prato che dava da mangiare alle pecore, queste avevano la priorità su tutto nell’uso della fattizza. La fattizza era il terreno che nell’annata precedente era stato coltivato a seminativo e le stoppie servivano durante l’estate e l’autunno a far pascolare le pecore; con le prime piogge autunnali spuntava l’erba e le pecore avevano il pascolo assicurato per tutto l’inverno. Poi, nel periodo primaverile, quando il lavoro era meno intenso, questa terra la si arava e la si preparava per l’anno successivo. Mimino nella speranza di minimizzare i danni, andò verso il gruppo di intrusi e, dopo averli salutati, li invitò con garbo a sospendere quel lavoro per almeno due motivi: primo si trovavano nella proprietà altrui e secondo stavano rovinando la “fattizza”. La risposta fu immediata, minacciosa e convincente: “vattene se non vuoi la peggio” e subito comparve nella mano di quello che sembrava il capo, una pistola e continuò “vai avanti, alla masseria, e prepara da mangiare perché tra poco arriveremo lì e vorremmo riempire la pancia”. Gli altri del gruppo, come se ormai il comportamento fosse già collaudato, fecero notare al malcapitato che anche loro erano armati. Sorpreso dalla reazione inattesa Mimino accennò a un “va bene” che gli rimase tra la gola e le labbra e, giratosi, tornò verso la masseria. Ma ad un veterano della guerra, ad uno che per sopravvivere a quanto di peggio una guerra può portare, non si può metter paura o indurlo ad una facile resa. La guerra era finita da poco e sebbene mancasse il pane non mancavano le armi tra la gente. Infatti il fattore della masseria aveva dato in consegna agli affittuari “per ogni evenienza “ di difficile gestione un moschetto militare, di quelli in dotazione alla marina, cioè un moschetto di alta precisione: “ a un chilometro e mezzo faceva bersaglio”, ripeteva con orgoglio Mimino quando raccontava questa storia. E questo doveva essere vero se proprio grazie a quest’arma riuscì a “convincere li papasciunari” ad andare via. Tornato alla masseria a bassa voce disse: “Nino, rivolgendosi al cognato”, porta le donne al sicuro con i genitori senza allarmarle e tu salta sul cavallo e tieniti pronto. Li pampasciunari stanno rovinando la fattizza e tra un po’ arriveranno alla masseria per mangiare”. Appena il tempo di finire la frase che non solo le donne erano al sicuro insieme ai loro genitori, ma una pistola era pronta a armare la mano di Nino. “Mettila a posto” sussurrò Mimino quasi per non distrarre la propria mente che già progettava tutta l’azione “tu resta qui pronto a intervenire se qualcosa non dovesse andare per il verso giusto. Quella pistola non serve”. Si allontanò dall’abitato della masseria finché non trovò “na mureddrha” a una bella distanza dai “pampasciunari” e qui dopo aver spostato qualche sasso per stare comodo, caricò il moschetto, regolò l’alzo e fece le diverse prove per essere sicuro che tutto sarebbe andato secondo i suoi piani. In quei momenti ripassava mentalmente tutte le esperienze fatte durante i nove anni di servizio militare ricordando, tra sé e sé, che lui era un tiratore scelto e che grazie al suo intervento, nel ’43, una spia, durante i bombardamenti di Genova da parte degli americani, smise di segnale i bersagli da colpire. Era orgoglioso di essere un tiratore scelto ed era orgoglioso di aver abbattuto, con la sua mitragliatrice di 20 mm di fabbricazione tedesca, un aereo americano sempre a Genova e il suo orgoglio toccava livelli incredibili quando ricordava di aver battuto, in una gara di tiro al bersaglio, un maresciallo istruttore tedesco. In quel momento, però, il sapere che la sua giovane moglie, la sua piccola figlia e tutti gli altri abitanti della masseria affidavano alla sua bravura la loro incolumità, lo caricava di responsabilità, come mai era successo nella sua vita. Questo lo rendeva silenzioso nella parola ma fortemente produttivo nella ideazione. Poggiata la canna su un sasso e imbracciato fermamente il moschetto, attraverso la retta che passava tra il suo occhio, il mirino e il bersaglio, studiò per un po’ di tempo i movimenti del capo banda e quando ebbe ben memorizzati i movimenti e i tempi del “pampasciunaru”, trattenuto il respiro, fece partire il primo colpo. Neanche il tempo che gli intrusi capissero il perché di quell’esplosione che subito si sentì un rumore metallico: il proiettile aveva centra “la sarchiuddrha” del capobanda facendolo sobbalzare per la pura e, come se fosse stato colpito da una scossa elettrica, lanciò istintivamente lontano lo strumento di lavoro. Tutti si guardarono intorno ma non si vedeva anima viva. Un secondo sparo echeggiò nell’aria e quasi nello stesso tempo un sibilo passò sulla testa dei contadini.Un terzo sparo confermerò ai contadini che lì erano indesiderati. Non vedendo nessuno verso il quale volgere la loro attenzione e cominciando la paura a farsi largo dentro di loro, il manipolo di disoccupati, girò le spalle verso la masseria e si diresse verso il punto in cui avevano lasciato le loro biciclette, senza più voltarsi indietro, anche perché di tanto in tanto ad uno sparo seguiva un sinistro sibilo sulle loro teste. Tutto finì, almeno dalla parte di Mimino, nel miglior dei modi, ma di certo a causa della arroganza dei loro padroni, anche per quel giorno qualche stomaco non ebbe nulla da mettere dentro. Una fine ben diversa, invece, tocco a dei “pampasciunari” di Carmiano , ma questo……. sarà il racconto di un’altra volta.
Vito PatiDocumento più antico su Veglie
(a cura di Vito Pati) Sommario: Agli inizi del 1300 VELLE è un casale di Terra d'Otranto, posseduto, insieme a Leverano e ad Albaro (lu aru nel dialetto di Leverano), dal Milite ROBERTO DE BORGIACO e soggetto ad una imposta (la decima) a favore della Chiesa di Oria. Si può pensare che nel panorama tormentato dei rapporti sotto gli Angiò, tra Chiesa e aristocrazie militari, alcune di queste volessero sottrarsi ad un sistema fiscale sempre più oppressivo. Da qui l'intervento dell'autorità regia, che si pone come garante degli interessi della gerarchia ecclesiastica, per assicurare il rispetto dei diritti consolidati della Chiesa. Da questo punto di vista si capisce perché il re Carlo II d'Angiò ordini al Giustiziere di Terra d'Otranto di "costringere con ogni mezzo" Roberto de Borgiaco, a pagare la decima all'Arcidiacono e al Canonico della Chiesa di Oria, una volta che si sia appurato definitivamente che dai tempi antichi tale decima è stata sempre riscossa. Degna di nota è l'affermazione che un obbligo di tal genere deriva dalla legge divina, è mantenuto dall'autorità del Re di Sicilia, non può essere annullato per beneficio o acquisto: esso è prova non solo di devozione, ma anche di fedeltà al re e chi si rifiuta di rispettarlo procura non solo danno alla sua anima, ma anche una perdita per i fedeli. Traduzione Documento N. 2 Anno 1304 - Marzo ° indizione. Ordinazione del Re Carlo II (d'Angiò) ai Militi Roberto de Borgiaco e Egidio de Fallosa per pagare le decime dei Casali di Veglie, Albaro, Leverano, Cellino, Pariet'Alto e San Marzano all'Arcidiacono della Chiesa di Oria. - Notizie Patrie del Cavalier Mario Pagano Mss. fol.238; poss. dal Canonico Ferretti. Durante il regno dell'Ill.mo Carlo, nell'anno del Signore 1304 redatto a Napoli. E' stato scritto per i "Giustizieri" (1) di Terra d'Otranto, sia presenti che futuri, a lui fedeli ecc. Lo impone la naturale volontà di attenzione, lo approva l'equità, amica della ragione, che noi vincoliamo i nostri sudditi con una legge uguale a quella che imponiamo a noi stessi. Ammesso che nell'assegnare le decime attraverso la nostra curia alle venerande Chiese per il loro pagamento si riconosce che sono state istituite secondo l'ordine della legge divina, a cui non deroga questa legge positiva, né una inveterata consuetudine impedisce che siano determinate dai successori temporali dei Principi Cattolici, Re di Sicilia, e una volta approvate parimenti si provvede ( a metterle in atto), si fa presente ed è stato confermato da nostro padre sovrano di chiara fama, ed in seguito da noi con ripetuti atti che, quando nasce un dubbio su un pagamento fatto in precedenza, l'obbligo non si estingua in virtù di un beneficio o di un acquisto. Ritenendo questo equo tra i privati, ai quali possiamo imporre la legge, è giusto, lasciare da parte l'equità, per l'affermazione cortissima del diritto divino, che in cambio della pia contribuzione delle decime offre non solo il giudizio relativo alla devozione, ma anche la più valida prova della vostra fedeltà, affidiamo a voi la questione, cioè che il Maestro Giovanni di Casera, Arcidiacono e il Presbitero Giovanni di Taranto Canonico della Chiesa di Oria, fedele e devota alla nostra maestà, dimostrano che Roberto de Borgiaco, Milite (2) che governa i Casali di "Velle, Alvarum et Leveranum" (3) , ed Egidio de Fallosa, Milite che governa i casali di Celline, Parietis Alto, e il tenimento S. Marzani, Provincia assegnata a voi, sono tenuti a consegnare al medesimo Arcidiacono e al Canonico, in ragione dell'arcidiaconato e del canonicato, la decima parte di tutti i prodotti degli stessi Casali citati, che tengono in loro possesso. Essi rifiutano di consegnare loro la stessa decima, non meno a danno delle proprie anime che a svantaggio degli stessi fedeli, per i propri bisogni. Tu amministratore della giustizia, indaga diligentemente se la stessa decima Arcidiaconi o Canonici o i loro procuratori o messi chiedano, siano loro dovute tali e quali in ragione del Canonicato e Arcidiaconato e se i loro predecessori ad essi stessi dai tempi antichi siano stati soliti riscuoterle ed averle, e se attraverso indagine (risulta) proprio questo, non vogliamo che si vada oltre, ma che ai tuoi successori non sia necessario ripeterla. Ordiamo che essa sia fissata, se sarà evidente che il suddetto Arcidiacono e Canonico e i loro predecessori sono stati soliti riscuoter ed avere la stessa decima ogni anno. Vogliamo che costringiate con ogni mezzo conveniente i suddetti Militi a pagare la stessa decima per quello in cui finora sono stati insolventi e per il futuro a pagarla intera ai citati Arcidiacono e Canonico e ai loro esattori o ad altro messo. Così è scritto in modo che da questo momento non siamo costretti a scrivervi più. Vogliamo che la presente lettera, dopo il competente esame, sia restituita a chi la presenta, perché in futuro possa valere efficacemente. Inviata da Napoli tramite Bartolomeo di Capua nel VI giorno di Marzo . Seconda indizione. a cura di Vito Pati ________________________ documento originale Documento N. 2 Anno 1304 - Marzo 2. Ind. Ordinazione del Re Carlo II ai Militi Roberto de Bergiaco e Egidio de Fallosa per pagare le decime dei Casali Veglie, Albaro, Leverano, Cellino, Pariet'alto e S. Marzano all1 Arcidiacono e alla Chiesa di Oria. - Notizie Patrie del Cavalier Mario Pagano Mss. fol. 238;poss. dal Canonico Ferretti. In regno Caroli II.i anno 1304 D. fol. 6 at. Neapoli. Scriptum est Iustitiariis Terrae Hydrunti, tam presentibus, quam futuris fidelibus suis etc. Indicit naturalis considerationis affectio, applaudit aequitas rationis amica, aequa lege quam nobis imponimus, nostros subditos astrin-gamus. Sane in dandis decimis per nostram Curiam venerandis Ecclesiis, quarum praestatu, ex Divinae legis praecepto noscitur instituta, cui nec positivum hoc derogat, neque consuetudo inveterata repugnat a Catholicorum Principum, Regum Siciliae suceessoribus temporalibus determinata fore, et approbata pariter providentur, inducitur et per clarae memoriae Dominum patrem nostrum et nos postmodum continuatis actionibus est firmatum, quod ubi dubitatio pr.cte praestationis ingeritur, non per modum actionis praepositae, vel acquisitionis officium terminetur. Hoc igitur in privatis quibus possumus legem ponere, aequum censentes, et lustum acquitate posita, quam Divini juris positione certissima quae pro decimarum exibitione devota non solum offert devotionis iudicium, sed probationis fortissimum argumentum fidelitatis vestrae committimus, et mandamus, ut quia Magister loannes Caserta Archidiaconus, et Presbiter loannes de Tarento Canonicus Ecclesiae Oritanae fidelis, et devotae nostrae Maiestati conquerendo demonstrant, quod Robertus de Bergiaco Miles tenens Casalia Velle, Alvarum, et Leveranum, ac Aegidius de Fallosa Miles tenens similia Casalia Celline, Parietis Alto, et tenimentum S. Marzani decreta vovis Provincia, qui eidem Archidiacono, et Canonico ratione Archidiaconatus, et Canonicatus, ipsorum decimam omnium victualium dictorum Casalium, quae tenent et possident, exhibere tenentur. Decimam ispam eis denegant exhibere, non minus in animarum suarum dispendium, quam ipsorum supplicantium detrimentum, ad requisitionem ipsorum. Archidiaconi, et Canonici, vel Procuratores, vel Nuncii eorumdem tu presens lustitiae diligenter inquiras si Decima ipsa quam postulant, eis ratione eanonicatus, et Archidiaconatus hujusmodi debeantur, et eam praedecessores eorum, et ipsi ab antiquis retro temporibus consueverunt percipere, et habere, et si per inquisitionem ipsum, quam ulterius fieri nolimus, sed successoribus tuis, ut iterari eam non oporteat. Praecipimus assignari eam constiterit praedictum Archidiaconum, et Canonicum praedecessores eorum decimam ipsam consuevisse singulis annis percipere, et habere. Praenominatos Milites, quod decimam ipsam tam in eo, in quo soluerunt illam hactenus defectivam, quod in antea illam integram dictis Archidiacono, et Canonico, vel ipsorum pro eis procuratori, aut nuntio prout coetero exolvant omni cohercitione, qua convenit compellatis. Ita quod ulterius inde vobis scribere non cogamur. Praesentes autem litteras post competentem inspexionem illarum restitui volumus praesentanti efficaciter in antea valituras. Datum Neapoli per Bartholomeum de Capua die VI. Martii secundae Indictionis.
Nicola GennachiVeglie una socieà contadina: gli anni '50
(a cura di Nicola Gennachi). Giovanni Parente, salutando Gianni Giannoccolo, sindaco di Veglie tra il '56 e il '61, l'ha ricordato come il "grande sindaco e prestigioso dirigente sindacale, organizzatore leale, capace di grandi masse". Era il "sindaco di tutti, ... famoso per le sue battute pronte e fulminanti". Le lotte dei contadini per le terre dell'Arneo, son servite, nel tempo, a sostenere la legge di riforma agraria e adeguarla alle esigenze dei contadini. Esse non portarono solo alla conquista delle terre da parte dei contadini, ma anche all'avvio di condizioni di vita umana e sociale diverse: iniziò la realizzazione di opere stradali, programmi di elettrificazione, inizio di un'assistenza sanitaria per tutti e un cambiamento delle condizioni dei lavori agricoli.  Non è mancato in questo coinvolgimento di massa l'umiliazione del carcere per alcuni dei nostri concittadini, come non sono mancati i momenti di vittoria. Interventi di Giovanni Parente - Prof. Mario Proto - Gianni Giannoccolo  Il prof. Mario Proto,  docente di storia delle dottrine politiche all'Università di Lecce, ha esordito ricordando che  in ogni individuo nasce dal profondo il bisogno di identità culturale per vivere il presente e proiettarsi nel futuro. Ha continuato facendo un rapido excursus sui risultati e sui fallimenti delle lotte dell'Arneo, sulle cause che impedirono un totale recupero agricolo del nostro territorio, invitando, infine, a non abbondare ancora una volta l'Arneo. "Gli anni 50 continuano a non essere oggetto di analisi nella giusta misura, forse per tentare di tirare tale periodo storico nel silenzio dell'oblio ma anche nel silenzio della rimozione politica. La rimozione politica nasconde il fallimento parziale di quelle lotte e a questo sono legate responsabilità oggettive dovute alla povertà dello stato sociale (braccianti agricoli, coloni, salariati) contro un nemico articolato sotto il profilo politico, militare, organizzativo". Nella realtà sociale degli anni 50, esisteva ancora delle condizioni di vita feudale: "ogni padrone aveva alla sua mercé uomini senza scrupoli (fattori) ma anche uomini armati per frenare le lotte dei contadini, erano questi i mazzieri, i mafiosi convertiti, elementi impazziti di organizzazioni politiche".  Altro nemico era rappresentato dallo schieramento politico, il centro-destra, che pur non apparendo come un nemico schierato, in parlamento frenano la riforma agricola in favore dei contadini.  Secolari condizioni come "l'assenza di denaro per alimentare il lavoro di dissodamento dei campi",ostacolava il tentativo di riscatto dei contadini. La mancanza di acqua e il "denaro da chiedere in prestito, con tassi di interessi usurai," scoraggiavano i contadini da iniziative i cui rischi finanziari si presentavano molto elevati.. "La resistenza forte di una organizzazione militare, la Celere al servizio di Scelba , allora Ministro degli Interni, braccio forte della repressione, pronta a frenare con la forza le organizzazioni di massa" era un ulteriore fattore che contribuì al fallimento delle lotte contadine del sud.  Ottenute le prime terre ci si rese conto che questo non era sufficiente e si capì subito che "fidarsi dello stato non risultava utile per la soluzione dei problemi dell'agricoltura; bisognava conoscere le tecniche della coltivazione della terra e, per fare questo bisognava tornare a scuola"; si innesca così un processo di alfabetizzazione che coinvolge prima i contadini stessi e poi i loro figli. La lotta per le terre dell'Arneo, fu un movimento di poveri analfabeti, appartenuto solo ai contadini:"i letterati (arcaici, barocchi) non capiscono cosa sta succedendo intorno a loro, restano in disparte, non si sentono coinvolti".  L'agricoltura in Italia si presentava a mantello di leopardo: nella regione Emilia c'era già un metodo di coltivazione moderno, per esempio l'uso della irrigazione con tecniche nuove, e competitiva con l'Europa; il sud era ancora imbrigliato in un sistema feudatario. Il movimento delle masse dei contadini di tutto sud (pugliesi, calabresi, lucani e molisani), richiamò finalmente l'attenzione di studiosi che, per capire questa realtà meridionale, visitavano i contadini nelle loro capanne. Ernesto De Martino, studioso del tarantolismo (che oggi rischia di essere letto in modo falsato) ha visitato nei propri tuguri i contadini meridionali per capire questa singolare realtà, dove lo jus primae noctis era sopravvissuto ben oltre la rivoluzione francese e, dove, a Lecce all'attuale Sedile, avveniva la vendita di schiavi abissini, somali per anni ancora dopo Napoleone. Ma il De Martino non fu il solo ad interessarsi, perché il fenomeno del mezzogiorno d'Italia interessò anche gli studiosi europei. La situazione sociale del mezzogiorno venne alla ribalta dell'intera Europa, che studiò la residua sacca di feudalesimo nel sud d'Italia. L'abbandono delle campagna. In quegli anni si decide che cosa fare anche della agricoltura meridionale arretrata e si sceglie per una convivenza con i poteri forti: ci fu così il blocco agrario. Intanto arrivano i primi investimenti con denaro proveniente dall'America (piano Marshal), inizia lo sviluppo del fenomeno dell'urbanizzazione e l'Arneo è abbandonato a se stesso. Tutt'oggi resta abbandonato. Il prof. Proto conclude il suo passionale intervento su questa terra dimenticata, ricordando ai presenti che "oggi bisogna vigilare affinché sulle terre abbandonate dell'Arneo non si abbatta l'onta della speculazione urbanistica. Veglie è chiamato a vigilare una seconda volta: attraverso una comunità contadina aperta alle innovazioni". In questo processo di cambiamenti un ruolo centrale spetta agli amministratori i quali devono saper "manovrare le leve politiche strategiche e conoscere sia ciò che accade qui che quello che accade altrove.  Interventi di Giovanni Parente - Prof. Mario Proto - Gianni Giannoccolo Gianni Giannoccolo - sindaco di Veglie dal 1956 al 1961 - ha ancora ricordato che "il passato prossimo è corredo portante del cittadino democratico. Non è ovvio ricordare il passato, bisogna avere il dovere della memoria , perché è su questa che si vive il presente e su questo si traccia il futuro". Ha ricordato la "mediocrità del ceto politico" attuale non per cause intrinseche, ma per lo strapotere incontrollabile della finanza. "Le esperienze amministrative della sinistra a Veglie, e al plurale si deve parlare in quanto c'è stata quella di Greco, hanno dato dei segni forti nuovi alla comunità cittadina. Il protagonista della sinistra a veglie non è stato Gianni, si farebbe violenza alla storia si si affermasse questo, ma siete stati anche voi con la vostra stima, la vostra fiducia, il vostro appoggio. Solo così si è potuto fare ciò che ha fatto Giannoccolo sostenuto da uomini leali, disinteressati come Cacciatore, Carrozzo, Savina ed altri".  Veglie ha bisogno si di una leadership (senza cadere nel culto della personalità) e di tutti voi. I progetti, per esempio quello riguardante la parte costiera dell'Arneo, non vanno presentati nei convegni, ma bisogna andare nei sindacati, nei partiti, nelle associazioni e stimolarli affinché si prenda conoscenza della bontà dell'idea.  "Quando sono stato eletto sindaco, nel 1956, si pagava il medico, le medicine e l'ospedale. Ma l'art. 32 della Costituzione recita "la Repubblica tutela la salute dei cittadini". Questo diritto costituzionale, Veglie l'ha conquistato 22 anni prima della sua applicazione sul territorio italiano. Si è vero che indebitai il comune,ma a tutti i veglie venne garantita l'assistenza sanitaria." Non fu facile infatti! Per raggiungere l'obbiettivo,garantendo la copertura finanziaria per un progetto nuovo in assoluto, feci una "delibera con cui mi impegnavo personalmente a pagare i debiti con titoli negoziali da me personalmente sottoscritti". Il Prefetto non era d'accordo e mi richiamò. Dovette far passare la delibera in quanto quello di pagare i debiti con titoli negoziali era un atto totalmente legittimo. Siamo stati i primi in Puglia a pagare la corrente elettrica a 25 lire il KW/ora piuttosto che le 48.  Una amministrazione comunale non deve distinguersi solo per i lavori pubblici, questo è facile. Ma garantire gli anziani, i più bisognosi, questo è difficile. Perché questi ricordi degli anni vissuti con voi? Perché bisogna avere dei punti di riferimento importanti per poter scegliere, per farsi garante delle categorie meno garantite. Con questi ricordi, con questi raffronti, senza molto chiacchiere, con semplicità, ognuno di voi è chiamato a farsi un esame di coscienza. Questo esame a Veglie non c'è stato, e ciò ha impedito che Veglie prendesse un'altra strada. Veglie deve farsi promotore di progetti locali da inserire in un progetto generale . Negli anni 50 veglie era al centro dell'attenzione della provincia e questo bisogna farlo nuovamente oggi.
Luigi MazzottaMadonna dei Greci. Le origini
CHIESA MADONNA DEI GRECI. LE VERE ORIGINI DELLA CHIESA SI S. MARIA DELLA PIETA' O DELLI GRECI Per quanto brevi questi cenni, che tracciano un profilo storico della Chiesa della Madonna dei Greci, sita all'estrema periferia ovest di Veglie (via Madonna dei Greci), tuttavia offrono degli elementi nuovi che forniscono una visione più obiettiva e più reale rispetto alla conoscenza di ipotesi già note, tradotte, "sic et simpliciter", in certezze. Questa ricerca ha avuto come supporto fondamentale le fonti documentarie consultate presso l'archivio diocesano storico nella Biblioteca Arcivescovile "A. De Leo" di Brindisi (Piazza Duomo) e presso l'Archivio di Stato di Lecce(1). In esse indifferentemente si è trovato il titolo della Chiesa in Santa Maria della Pietà, o dei Sette Dolori, o della Beata Vergine Addolorata, seguita sempre da "delli Greci". Prima di focalizzare le origini della chiesa, si rende necessario analizzare gli aspetti essenziali che interessano la storia di Veglie in relazione alla stessa; in primo luogo si dovrà stabilire se la presenza del rito greco a Veglie, in età medioevale, è da collegare o meno alla Madonna dei Greci; in secondo luogo è opportuno prendere in esame la vicina Masseria Panareo nel corso del suo divenire storico. Il quesito fu posto già alla fine del secolo XIX in un inventario di "res sacrae " di questa chiesa, senza comunque che si trovassero soluzioni. Autori locali, dando una spiegazione alquanto personalistica, sono dell'avviso che sia da collegare a quella popolazione greca che immigrò in queste terre intorno al sec. X che avrebbe costruito questa chiesa per celebrare i divini uffici nel loro patrio rito. E' certo che nel 1325 a Veglie, così come è documentato in un elenco di entrata a favore della Santa Sede, officiava il clero di rito Greco sottoposto comunque alla giurisdizione dell' Arcivescovo latino di Brindisi. Consultando i verbali delle Sante Visite degli Arcivescovi di Brindisi in età moderna, si è potuto appurare che tale clero aveva la sua sede nella Chiesa di S. Salvatore, situata nell'antico nucleo medioevale di Veglie e, precisamente, nell'attuale via Milano, detta sino alla fine del secolo XIX, vico S. Salvatore. Tale chiesa, tra l'altro, fu la prima chiesa parrocchiale di Veglie fornita di alcuni beni con l'onere di messe che furono successivamente trasferiti, tra il 1300 e il 1400, alla nuova e attuale Chiesa matrice di S. Giovanni Battista, come si legge nella relazione del 1627, dell'arcivescovo Giovanni Falces e in quella dell'Arcivescovo Dionisio o' Driscol nel 1650. Il rito greco vegliese sembra si sia estinto tra il sec. XIV ed il sec. XV, rimanendo comunque fattore influenzante il culto iconografico, come testimoniato dagli affreschi situati nella Cripta della Favana (nel cimitero) risalenti al sec.XV. La Chiesa di S. Salvatore, passata al clero latino, rimase aperta al culto fino al sec. XVII. La Chiesa Madonna dei Greci invece è legata, nel corso dei secoli, alla vicina Masseria Panareo, detta anch'essa, sino alla prima metà del sec. XVII, "Idelli Greci". Infatti, in una relazione del 1809 dell'Arciprete di Veglie don Giuseppe Caricato, tra le cappelle rurali, è scritto: "Nella Masseria nominata il Panareo, vi è un'altra Cappella sotto il titolo della Vergine dei Sette Dolori, ha la rendita di poter celebrare le messe alla suddetta cappella", con ciò si stabilisce che la Madonna dei Greci è la chiesa annessa alla Masseria Panareo, come è suffragato, inoltre, da un atto notarile del notaio Antonio Maria Gervasi del 10 ottobre 1656. Il primo do cumento che menziona la "Masseria delli Greci" risale al 1515; si tratta di una costi tuzione di un beneficio ecclesiastico, sotto il titolo di S. Martino, facente riferimento ad un altare dedicato allo stesso Santo, sito nella Chiesa matrice di Veglie. Infatti con bolla del 27 gennaio 1515 dell'Arcivescovo di Brindisi Domenico Idiaschez si formula la "collatio" ossia l'inventario dei beni del beneficio di S. Martino, fondato dal Sacerdote don Pietro Greco a favore del chierico Giovanni Greco, suo nipote. Tra i beni stabili vi erano alcune terre "in loco nominato la maxaria de li greci", la quale, prima di essere di proprietà del suddetto don Pietro, apparteneva a don Giovanni e don Angelo Greco. Lo "ius patronatus" di questo beneficio ecclesiastico, il diritto cioè di scegliere il cappellano, ossia il beneficiario ecclesiastico, spettava ai Greco. L'onere del cappellano beneficiario consisteva nel celebrare una messa la settimana all'altare di S. Martino in Chiesa madre. Quasi sempre i beneficiari erano della famiglia Greco. Alla fine della prima metà del sec. XVII, la masseria delli Greci cioè di proprietà della famiglia Greco, non appartenne più a tale casato, ma ai Panareo di Lecce. Nella Santa Visita del maggio 1646 è scritto: "Ecclesia Sancta Maria delli Greci extra menia fuit inventa bene ornatam. Altare bene dispostum cum omnibus necessaribus. Possiduta per reverendum Capitolum". Riteniamo, pertanto, che la costruzione della chiesa risalga tra gli anni 1640-46. La documentazione sino ad ora consultata non esclude che, prima ancora della Chiesa, sia stata edificata l'edicola (nel giardino della chiesa). Il suo sito (lungo la vecchia ed importante strada di comunicazione con il mare) e gli elementi d'arredo presenti al suo interno (i sedili in pietra, gli incavi nel muro per poggiare le lanterne), fanno supporre che essa servisse da ricovero al viandante stanco e che, pertanto, sia stata proprio l'edicola l'elemento originario del complesso architettonico. All'interno della chiesa, infine, evidenziamo le grandi pitture murali (totale della superficie dipinta a tempera mq. 105 circa), che si estendono perimetralmente su tre pareti. Si tratta del ciclo raffigurante la Passione di Cristo. Esse probabilmente sono state realizzate nel secolo XVIII. In questa Chiesa della Madonna dei Greci partendo dalla parete di destra sono di seguito rappresentate le scene: 1) Ultima Cena; 2) Gesù nel Getsemani; 3) Gesù alla colonna; 4) Gesù deposto dalla Croce; 5) Ecce Homo; 6) Gesù carico della Croce incontra Maria; 7) Gesù e la Veronica. Ogni scena, (ad eccezione della scena "Gesù deposto dalla Croce" corrispondente alla parete con l'altare) è inserita in un arco il cui intradosso è decorato con motivi floreali. In alcune zone è possibile individuare strati sottostanti di affresco e precisamente nei riquadri raffiguranti: Gesù e la Veronica, Gesù carico della Croce incontra Maria, Ecce Homo, Ultima Cena. La parrocchia SS. Rosario, cui appartiene la cappella, si sta adoperando fortemente per trovare i finanziamenti necessari al restauro globale di questo complesso architettonico, antico della Madonna dei Greci e tanto amata dai fedeli vegliesi. (1) Cfr. anche il Progetto di restauro 2001 e Carteggi privati di Luigi Mazzotta
Luigi MazzottaCulto di san Giovanni Battista a Veglie - Frammenti storici
FRAMMENTI STORICI SUL CULTO DI SAN GIOVANNI BATTISTA A VEGLIE “Egli è, Uditori, un grande impegno di chi si espose a predicare verità poco aggradevoli nelle Corti, ove siccome con serena fronte s’ammettono … gli avvelenati discorsi, così con sovraciglio torvo s’accolgono i sinceri avvisi di salute, all’ardua impresa un petto sì forte ricercasi, che quando Iddio volle far penetrare…alcune verità importanti, ma dispiacevoli, non gliele fece dire all’orecchio da alcun Profeta; ma gliele pose dinanzi agli occhi, scritte da una mano non conosciuta, per dichiarare, che per esporre ad un Grande quelle verità, che non sono di lui a grado, un petto richiedesi, che sia come un muro, muro di bronzo.”(1) Potrebbe essere stata questa particolare virtù di coraggioso paladino degli umili contro l’arroganza e la prepotenza dei potenti ad indurre gli avi, vostri concittadini, ad assurgere San Giovanni Battista a Protettore di Veglie, considerato peraltro che i vegliesi, impotenti dinanzi agli abusi vessatori per lunghi secoli perpetrati dai vari feudatari, incuranti dei diritti civili e sociali, anelavano tanto a riscattarsi dall’oppressore che vollero piantare, tra il sei-settecento, un albero di gelso nell’attuale Piazza Umberto I°, (2) come simbolo della Libertà, diritto inalienabile dell’uomo .(3) La stessa Chiesa istituzionale vegliese, in più occasioni, prese a difendere i poveri cittadini dalla cupidigia dei potenti, come l’ardimentosa testimonianza del Sacerdote don Monte Verrienti, il quale, il 4 settembre 1638, insieme al Sindaco di Veglie, il capitano(4) Giovanni Battista Frezza, ed il Magnifico Ortenzio Elia, dinanzi al giudice Santo de Andrea di Lecce, adendo alla Regia Camera della Sommaria di Napoli, protestò coraggiosamente contro la vendita ingiusta e forzata del sale a carico dell’Università di Veglie, frutto di una vera e propria annosa “tangentopoli” tra un ignoto notabile vegliese e Giulio de Carolo, luogotenente del Magnifico Giovanni Vincenzo Lanza, Regio Arrendatario delle saline della Provincia d’Otranto e Basilicata.(5) In tutta Europa, dalla Scandinavia alla Grecia, il Battista conserva ancora i caratteri di una divinità agricola.(6) Al culto di San Giovanni sono legati alcuni antichi riti di origine rurale ed agraria, come l’inaugurazione religiosa della mietitura e la purificazione attraverso l’acqua per far crescere abbondanti messi e allontanare malanni e impurità. A Veglie, paese prettamente agricolo e rurale “ab origine”, sono ben note, a memoria d’uomo, le intercessioni e le processioni in onore del Santo in tempi di siccità, carestia e calamità naturali. Sotto l’aspetto prettamente storico-ecclesiastico e civile di Veglie, le fonti d’archivio ci permettono di evidenziare alcune pagine dei secoli passati intorno al culto del nostro Santo. La Chiesa Matrice, fin dalla sua fondazione, avvenuta tra i sec. XV-XVI,(7) è sotto il titolo di San Giovanni Battista(8). Lungo i secoli seguenti il sacro edificio fu alquanto rimaneggiato. Nella primitiva struttura architettonica , lungo le pareti della navata, vi erano delle ampie nicche, con arco a tutto sesto, affrescate con figure di Santi, corrispondenti a benefici ecclesiastici con i loro relativi altari. Nella prima metà del settecento furono chiuse. Durante i restauri del 1968 ne sono venute alla luce tre di esse, le figure di Sant’Antonio di Padova e Sant’Antonio Abate nonché l’ubicazione dell’antico Battistero che si può osservare a destra del retrospetto della facciata. L’altare dedicato al Santo, nella originaria struttura, si trovava in corrispondenza dell’attuale cappellone in cui riposano i resti mortali dell’Arciprete Mele; era collocato cioè vicino al Battistero in senso perpendicolare.(9) Dal sec. XVI ai primi decenni del ‘700, San Giovanni Battista, dal punto di vista canonico, è considerato soltanto titolare della Chiesa Matrice Parrocchiale; le fonti di questo periodo non evidenziano mai che Egli sia il Protettore o il Patrono. Possiamo comunque dedurre che il 1730, o qualche anno prima, sia l’anno in cui San Giovanni Battista fu proclamato tale. Infatti, con Decreto della Congregazione Romana dei Sacri Riti del 21 gennaio 1730, viene confermata l’elezione di San Filippo Neri e Sant’Irene Vergine e Martire “in Protectores minus Principales” della Terra di Veglie.(10) Se furono nominati i meno principali, sicuramente sarà stato nominato il principale in quello stesso periodo. A sostegno di tale assunto, il 26 gennaio 1730, il Vescovo Enrico Lasso De la Vega, da Roma, concede una reliquia del Precursore su iniziativa del Sacerdote vegliese don Cosmo Marcuccio, il quale dona al “Reverendo Capitolo di detta Terra l’infrascritta reliquia del Glorioso San Giovanni Battista, Titolare di detta Chiesa e Protettore di detta Terra” di Veglie.(11) Tale reliquia fu incastonata in un reliquario-ostensorio di argento posto, tutt’ora, alla venerazione dei fedeli. Dopo il 20 febbraio 1743, giorno in cui un tremendo terremoto provocò alcune vittime ma soprattutto molti danni agli edifici in tutto il Salento(12), la Chiesa Matrice vegliese, subendo anch’essa gravi lesioni alle strutture murarie, fu sottoposta ad un radicale cambiamento architettonico, tra cui la chiusura delle antiche nicche già citate e la costruzione di tre cappelloni per ogni lato della navata, fungenti, probabilmente da contrafforti alle pareti portanti laterali. Dai Registri Parrocchiali dei morti di quel giorno nefasto, non risulta che a Veglie vi siano stati dei morti; allora, perchè non pensare che il popolo di Veglie, così come era avvenuto negli altri paesi salentini intercedenti altri santi, avesse ringraziato San Giovanni Battista per lo scampato pericolo? In quella occasione di ricostruzione , nel rifare l’altare maggiore, che fino a quel momento era di legno(13), fu collocata una bella statua in pietra del Precursore al centro dello stesso altare onde poter venerare con maggior decoro il ”titolare della detta Chiesa e Principal Padrone della detta Terra” di Veglie.(14) Questa statua, alta circa due metri, sarà collocata nel 1865 sulla sommità della facciata della Chiesa Santa Maria delle Grazie in Piazza Umberto I°, dove tutt’ora si può ammirare.(15) Il 28 ottobre 1866, la giunta comunale decise di spendere £ 25.50 affinchè tale statua venisse” ritoccata con nuova tinta a color marmo, e ciò per non perdersi una statua antica”(16) La statua di San Giovanni Battista, o meglio di san Giovannino, che tutt’ora si venera, era presente già nel 1747(17). “Si conserva dentro stipo di tavola una statuetta portatile di legno di san Giovanni Battista Protettore con il suo piedistallo dorato e Croce in mano di essa statua d’argento con su Agnus Dei”(18) Questa incantevole statua in legno, in stile barocco di scuola  napoletana , ha le sembianze di un putto nudo con un agnello ai piedi; il corpo è rivestito con un vello riccamente adornato con perle e fili d’oro. Nel 1990 è stata sottoposta ad un accurato restauro sotto il controllo della Soprintendenza alle Belle Arti. E’ stato appurato che il legno è cedro del Libano. In un inventario dell’ 1 giugno 1763, redatto dal notaio Giacinto Favale di Veglie, così è descritto: “la statua portatile di San Giovanni con la veste di velluto ricamata in argento, con la Croce e lamina con iscrizione”Ecce Agnus dei” d’argento; corona a filo d’argento…un reliquario a filigrana con catinella d’argento, due anelle grosse d’oro con pietre due una rossa e l’altra verde, due maniglie di passanti d’oro in numero quarantuno”(19) Nel corso degli anni gli “ex vota” , aumentarono tanto che l’Arciprete, il Canonico Don Pasquale Verrienti, nel 1887, li vendette per le necessità materiali della Chiesa. Per questa ragione il Consiglio Comunale, il 26 aprile di quell’anno, chiese al citato parroco “il conto della vendita degli ori del patrono San Giovanni, se e per quale somma gli ori stessi vennero alienati, ed a quale uso si destinarono le somme ricavate. Statuiva inoltre di dargli un voto di biasimo per l’autocratico procedimento tenuto dall’Arciprete.” Il sottoprefetto di Brindisi dichiarò che il Consiglio Comunale non era competente a riguardo. Gli ori furono venduti perché”l’amministrazione parrocchiale trovavasi in gravi spese per il restauro della Chiesa”, l’Arciprete aveva comunque chiesto l’autorizzazione allo stesso Sottoprefetto per la vendita.(20) L’Università di Veglie ovvero l’amministrazione comunale aveva lo ius patronatus, cioè il diritto di proprietà dell’edificio della Chiesa Madre, con l’onere alle riparazioni, ai restauri, alle suppellettili come i banchi, i confessionali, le campane, l’olio alla lampada del Protettore e perfino era a suo carico l’onorario all’organista e al tiramantici dell’organo a canne.Il 24 maggio 1865, dopo aver effettuato una perizia, il Sindaco Luciano Colelli, per “lo stato infelice in cui si trova questa Chiesa Matrice, la quale merita assolutamente di essere prontamente ristaurata” erano necessari almeno ducati 1000. L’erario comunale poichè non era in grado di sopportarne la spesa, si decise che le feste di San Giovanni Battista, l’Iconella, San Vito e SS. Sacramento fossero sospese per un solo anno; i ricavati delle feste fossero devoluti ai restauri. Le feste però furono effettuate ugualmente “con qualche scemazione sul lusso degli anni precedenti”. Per questo fu istituita una commissione fatta di notabili locali, ecclesiastici e laici: don Luigi Negro, don Santo Frassanito, don Cosimo Verrienti, don Tommaso Massa, don Salvatore Zecca, don Domenico Plantera, don Donato Negro, don Teodoro Verrienti.(21) Tra l’iconocrafia giovannea vegliese, oltre alle statue suindicate, ricordiamo l’affresco del Santo situato nella cripta della Favana risalente alla prima metà del sec. XV, attestante l’immagine più antica del Protettore. In Chiesa Madre, una serie di dipinti su tela traccia tutta la vita del Battista; dalla Visitazione di Maria SS. a Santa Elisabetta, madre di San Giovanni, alla sua Natività, opere pittoriche ottocentesche attribuibili al Colletta o a Vincenzo Montefusco da Salice. Inoltre due tele ovali del seicento, già collocate nel Coro, raffigurano il Battesimo di Gesù nel Giordano e la Decollazione di San Giovanni. Interessante è l’opera settecentesca in cartapesta raffigurante la testa decapitata del Santo, collocata in una teca in vetro e legno dorato in oro zecchino. Altre antiche immagini del santo protettore si possono osservare nella  tela delle Anime del Purgatorio, degna di attenzione, in cui San Giovanni Battista è assiso alla sinistra della SS. Trinità . Inoltre nella seicentesca stupenda tela della Beata Vergine del Rosario, recentemente restaurata e situata nella Chiesa Parrocchiale omonima, il Battista, insieme ai  Santi Domenico, Rocco e Biagio vescovo, è raffigurato, a mezzo busto, ai piedi della Madonna. Giugno 2002 LUIGI MAZZOTTA NOTE_____________________________________ (1) Tratto da: Orazione IX in lode di San Giovanni Battista in Orazioni sacre composte e recitate in varie occasioni dal Padre Serafino da Vicenza Cappuccino, tomo primo, Venezia 1740, pag. 79 (2) Archivio di Stato di Napoli, Catasto Onciario dell’Università di Veglie 1741, fascio 8301. L’Università di Veglie (Amministrazione Comunale) possedeva tra i suoi beni “un albero di celso in mezzo al Rivellino…” Il Rivellino era un avamposto, rispetto alle mura della città, per difendere la “Terra”, ossia l’abitato circondato da mura (intra moenia), rispetto al ”Borgo”, abitato fuori le mura (extra moenia). A conferma che il ”rivellino” è l’attuale Piazza Uberto I°, si nota l’ubicazione della “Cappella sotto il titolo della Beata Vergine delle Grazie al Rivellino” (Archivio di Stato di Lecce, Catasto Onciario di Veglie del 1749, foglio 244) ed inoltre, un antico detto locale, per evidenziare che un fatto od un oggetto è molto antico, si dice: “ si ricorda lu geusu ti mienzu la chiazza”. In quell’anno, 1741, era Sindaco Nicola Greco, appartenente al ceto dei nobili. La conferma o meno dell’elezione del Sindaco dell’Università della “Terra Veliarum” doveva essere gradita al feudatario (Archivio di Stato di Napoli, Catasto Onciario dell’Università di Veglie 1742, fascio 8300, foglio 359) Molti erano gli abusi feudali: l’autore del Ragguaglio circa il genio del Baronaggio del 1737, scriveva: “Mi vien riferito pratticare in alcuni luoghi del Regno, due dei quali a me noti, cioè nella terra di Valenzano nella provincia di Bari e nella terra di Veglie nella provincia di Lecce, si esige la gravezza da quei baroni chiamata la cunnatica, forse con concessione nei tempi barbari impetrata. Che il vassallo coniugato debba ogni sabato contribuire al barone un determinato pagamento per essersi giaciuto in letto colla propria moglie in quella settimana; il qual pagamento attrassandosi d’un sabato nell’altro, se ne deve soddisfare in multa maggiore somma” (tratto da G. Spagnoletti “La cultura della miseria” in A. Bello, “ Amare Contee – un viaggio in Puglia” Rimini 1985, pag. 112) (3) Durante la rivoluzione napoletana del 1799, in molte piazze del Regno fu piantato un albero di gelso in segno di Libertà e sfida contro i soprusi dei potenti. (4) Il Capitano era il rappresentante del feudatario con poteri di giustizia civile e criminale. Nel ‘700, il titolo di capitano si evolse in quello di Governatore. (5) Archivio di Stato di Lecce, sezione notarile 46/28 f. 203 v., notaio Antonio Maria Gervasi. (6) G. B. Bronzini, Giovanni il Battista, Santo, in Grande Dizionario Enciclopedico, vol. IX, pag. 121, Torino 1969 (7) Sulla problematica intorno all’origine della Chiesa Matrice di Veglie si rinvia ad altra occasione di ricerca, dove si evidenzierà , con metodologia scientifica, che la supposta o, meglio, la certezza che la sua fondazione risalirebbe al periodo normanno del sec. XI-XII è del tutto infondata. (8) Biblioteca Arcivescovile “A. De Leo” di Brindisi, Fondo Curia, Atti Santa Visita Arcivescovo Giovanni Carlo Bovio del 1565, f, 327. La Chiesa Matrice Parrocchiale “ …ibi unica existit sub invocatione Sancti Joannis Baptistae, …” In quell’anno la Chiesa ancora non era completata: “… non dum est perfecta, et modo aedificatur et locus pro tempore fuit visus decens.” (9) Per tale esposizione vedi i verbali delle Sante Visite del sec. XVII in Biblioteca Arcivescovile “A. De Leo” di Brindisi (10) Archivio Chiesa Matrice di Veglie, Cartella Miscellanea, foglio sparso. (11) Idem, Cartella delle Autentiche Reliquie (12) E. De Simone, Vicende sismiche salentine, Lecce 1993, pag. 73 e ss. (13) Bibl. Arc. “A. De Leo”, Fondo Curia, Santa Visita tomo III, foglio 822 v. (14) Archivio Chiesa Matrice, Cartella XI, Santa Visita Arcivescovo De Ciocchis – 1752 (15) Si è del parere che tale statua in pietra leccese, di pregevole fattura scultorea, fosse rimossa e riportata nella sua originaria collocazione… portandone una copia , in gesso o vetroresina, sulla Chiesa della Piazza (16) Archivio di Stato di Lecce, Scritture Università – decisioni decurionali Veglie, foglio 263 (17) Bibl. Arc. “De Leo”, Fondo Curia, Santa Visita tomo XI, f.243v. (18) vedi nota 14 (19) vedi nota 14 (20) Archivio Curia Arcivescovile Brindisi – cartella XIII – foglio senza numero (21) vedi nota 15 – foglio 236
Claudio PennaRicordi degli anni '60
Alcuni ricordi della mia infanzia sono impressi in me in modo molto marcato, si tratta di luoghi, persone, atmosfere, odori… I miei 6-7 anni si sono dipanati in un unico viottolo: via san Giovanni. Quanta vita brulicava in quel breve tratto di strada ricoperto da "chianche" che, quando pioveva, formavano delle piccole e luccicanti pozzanghere d'acqua ed io mi divertivo a saltellare tra una chiancha e l'altra senza finire in una pozzanghera e senza schizzare acqua sui passanti. Questa via per me aveva due precisi confini: la piazza da un lato e "lu Miminu Conte" dall'altra. Tra i due confini c'era tutto quello che poteva servire per poter sopravvivere, una marea di negozietti (o "putèe") che quasi quotidianamente mi giravo. "Lu Miminu Conte" era fornito di tutto: vetri per le finestre, assi di legno, vernici, suola, puntine da 8 e 10 per le sottosuola, gomma per i sottotacchi, chiodi da 60 o da 100… Un moderno supermercato del fai da te. Al largo della "Porta Noa" ricordo la piccola pescheria "ti lu Mariu ti lu pesce", si trattava di una casupola di un paio di metri quadrati che formava la "chiazza ti lu pesce"; non era proprio al centro del largo, ma un po' verso l'esterno costeggiando quasi l'invisibile linea che demarca la stradina che dalla piazza Umberto I defluisce in via san Francesco. Salendo ancora verso la piazza, dal largo della Porta Nuova, c'era un piccolo negozio di generi alimentari proprio all'angolo, quello di Verrienti, un negozietto minuscolo, semibuio, con il proprietario - munito di due spesse lenti - eternamente seduto lì fuori, all'angolo del suo negozio. Sul lato diametralmente opposto, c'era il fruttivendolo "Pietru Baccàru", fornito di tutto il ben di Dio! Trenta passi ancora si accedeva a tre tipiche "putee": il negozio "ti lu Fai" che vendeva scarpe, un bel giovane rotondeggiante e rosso di salute; "lu scarparu, mesciuGgìnu" che cantava a scuarciagola le sue arie e "lu parrucchere mesciuLucianu" per il quale spesso mi recavo alla tabaccheria in piazza, nella quale si giocava la schedina, per prendere le schedine non giocate: servivano a lui per pulire il rasoio mentre sbarbava i suoi clienti. Di fronte c'era una piccola osteria "ti Pezzetti e mieru ti lu Miccoli" e accanto, passando una grande scantinato semibuio chiuso da una polverosa rete metallica, c'era "la MiminaTrentapili" che vendeva anch'essa scarpe. "MesciuLuciano" confinava con un altro fruttivendolo, "lu Chirivì", anch'egli ad angolo. Con il fruttivendolo si accedeva già ad un altro largo, quello di sant'Irente. Qui, su un lato, quello che costeggia la via principale, c'era l'ingresso della chiesa madre, dal lato opposto il negozio-bazar "ti lu Cambò". Qui potevi trovare un po' tutto quello che non era di pertinenza "ti lu Miminu Conte": bottoni, cotone, spilli, aghi; i bottoni spesso li faceva lui stesso con la macchina che aveva in un piccolissimo sgabuzzino sulla destra del suo bancone. Pochi passi e si arrivava al bar "ti lu Ccòccali". Passando vicino potevo sentire gli uomini che sbattevano le carte sul tavolo mentre giocavano a "primiera", a "marianna" o a "briscola", lo sbattere le carte sul tavolo indicava la superiorità della propria giocata e il non farsi intimidire dalle carte dell'avversario. Nell'aria si sbattevano invece le più strane e tortuose bestemmie, spesso inventate sul momento quando si erano esaurite quelle ufficiali! Uscendo "dallu Ccòccali" si poteva entrare nell'altra bottega "ti lu Pascali Coppula", divisa in due da una basso arco rettangolare: da una parte cartolibreria, dall'altra bottega in cui si mesceva il vino nei vari misurini da un quarto, un quinto, ecc… ci si poteva anche fare un saportito panino con prosciutto e provola oppure si potevano assaggiare "pezzetti e mieru". Di fronte, salendo tre gradini, si entrava nella farmacia della dottoressa Negro, ricordo sia la dottoressa sia il bancone, altissimo ai miei occhi. Infine, dopo la farmacia, c'era "lu tabbacchinu ti lu Cilistrinu": quanta fila occorreva fare per acquistare il sale. Dopo tutti questi negozietti,si arrivava finalmente in piazza Umberto I. Era incredibile vedere quanta gente - naturalmente tutti uomini - gremiva la piazza. Tutti indossavano la giacca ed il cappello con le tese, tutti parlucchiavano tra loro in piccoli gruppi: sembrava una continua festa patronale. Spiccavano i grossi gruppi vicino ai vari bar: il bar Venezia, sulla destra frontalmente alla torre dell'orologio, il bar Majestic di Martina, il bar "ti lu Fiore"; questi formavano quasi un immaginario trapezio: da un lato il bar Venezia ed il bar Majestic, dall'altro il bar Fiore ed il comando di polizia municipale.